Mr Ciak #17: Come ti spaccio la famiglia, Una canzone per Marion, Rubinrot
Creato il 28 agosto 2013 da Mik_94
E
poi vedi questo film e hai la sensazione di piangere, soffocare,
smettere di respirare del tutto. La causa, una sola: le troppe
risate. Dai produttori del sopravvalutatissimo Come ammazzare il
capo e vivere felici, arriva Come ti spaccio la famiglia,
bruttissimo titolo italiano – ma come li scelgono? - dell'inglese
We're The Millers. Una commedia scorrettissima,
divertentissima, ganzissima, sballatissima... insomma, un sacco
issima. Un film on the road su un'improbabile famiglia
felice che, nel suo allegro e spazioso camper, trasporta
l'equivalente di una dozzina di piantagioni di cannabis provenienti
dall'afoso e pericoloso Messico. Sono certe gite fuori porto a
rendere le famiglie più unite, giusto? E che famiglia è quella dei
Millers: la mamma è una spogliarellista a tempo pieno, il padre è
un piccolo pusher, il figlio è un verginello ingenuo ed innocente,
la figlia è una mina vagante con la passione per i pearcing, i
tatuaggi e i cattivi ragazzi. Sono una famiglia, ma solo per un
giorno: per finta. Ma quando un poliziotto messicano “che ama la
compagnia di altri uomini” ti chiede un po' di compagnia per
lasciarti passare, quando una tarantola ti inietta il suo veleno
nelle parti basse, quando due coniugi di mezza età ti propongono un
pepato e promiscuo scambio di coppia, quando la ragazza dei tuoi
sogni ti vede baciare per esperimento la tua finta madre e la tua
finta sorella e quando ti inseguono un paio di energumeni
armatissimi... be', allora è il delirio più totale. Un delirio
all'ultimo attacco di risa. Come ti spaccio la famiglia è un
intrattenimento assurdamente esilarante: una commedia ottima che, pur
non proponendo nulla di originale, tra gag e volgarità sempre
efficaci, rischia di far crollare un cinema scosso da risate di massa
forti come onde sismiche. Non c'è un solo attimo di tregua tra una
disavventura e l'altra, fatta eccezione per la brevissima parentesi
romantica finale. La chiave sta nella brillante e semplice
sceneggiatura e, soprattutto, nel cast. Teneri, simpatici, affiatati,
grandi: idoli! Il Jason Sudeikis di Libera uscita e
Candidato a sorpresa, quella sagoma di Will Poulter, la fresca e
frizzante Emma Roberts e la regina della commedia americana, Jennifer
Aniston. Quarant'anni e oltre e non sentirli: i suoi film
appartengono un po' tutti allo stesso genere, vero, ma come fa ridere
lei con la sua mimica e le sue movenze riescono in pochi. E' diverte,
è sexy mentre si esibisce in uno spogliarello che farà incetta di
visualizzazioni sul web ed è incredibilmente autoironica mentre –
nelle scene tagliate – ridacchia ascoltando la sigla del suo
Friends. Una commedia diversa, su una famiglia diversa. Ottima
per una serata al cinema, in compagnia di amici scemi e grasse
risate.
Colpevole.
Una canzone per Marion è stato il secondo film dopo The
Impossible, in questo 2013, ad avermi fatto piangere per davvero. Perciò,
lo dichiaro colpevole. E' il genere di film con cui i critici non
vanno troppo d'accordo, ma, dall'inizio alla fine, mi sono sciolto
come un ghiacciolo alla fragola al sole. E no, non era la tristezza a
farmi questo effetto, ma la tenerezza che i protagonisti del film
diffondevano intorno a loro: ad ogni respiro, ad ogni bacio, ad ogni
piccolissima nota. La commedia drammatica diretta da Paul Andrew
Williams – regista del dissacrante horror The Cottage –
spicca per una leggerezza e una delicatezza totalmente inaspettate,
disarmanti nella loro autentica sincerità. E' adorabilmente e
spiccatamente british in tutto, dalle meravigliose
ambientazioni al cast, ma non sa trattenersi davanti all'amore
straziante dei due protagonisti, Marion e Arthur. Non un amore
proibito, non un amore lampo, ma un sentimento che – tra alti e
bassi – è maturato in cinquant'anni e oltre di matrimonio. Un amore coniugale, pieno di rughe e acciacchi; un
amore della terza età. Lei, Marion, vive per la musica; lui, Arthur,
vive per Marion. E' un vecchietto brontolone e coriaceo, con le
pareti del cuore spesse come rocce e un figlio con cui parla
pochissimo, ma per Marion farebbe di tutto e di più. Sua moglie,
ormai, è fragile e anziana, non le resta molto da vivere, e, ogni
notte, la culla come se quella fosse l'ultima notte da condividere
con la sua anima gemella. Alla luce del sole, però, davanti a tutti,
è cinico e sarcastico e sembra divertirsi un mondo nel prendere in
giro gli anziani come lui che, insieme alla sua Marion, si sono uniti per
divertimento al coro diretto dalla giovane Elizabeth.
Stonati, ma felici, cantano il sesso che non fanno ormai più,
l'amore che continuano a sognare, il vigore del rock 'n roll, il loro
saldo attaccamento alla vita. Uno strano spettacolo, questo, che
emoziona come pochi. Li guardavo e pensavo a loro come a tanti
bambini felici: ingenui, puri, candidi. Poi, una mattina, Marion non
si sveglia più. E' spirata nel corso della notte. Con molta calma,
Arthur chiama suo figlio e prepara il funerale, poi si chiude in una
stanza e emette un urlo che mi ha gelato il sangue. Il grido di un
animale morente e di un uomo che piange. I membri di questa adorabile
coppia di ottantenni sono il rigido Terence Stamp e quell'angelo
meraviglioso di Vanessa Redgrave, sempre bellissima e dolce. A dare
scintille alle loro vite e a far sì che Arthur, ormai vedovo, esca
fuori dall'abisso della depressione, è la direttrice di quel coro di
anziani, una solare e simpatica Gemma Arterton, meno appariscente del
solito, ma sempre in parte, anche se due giganti come Stamp e la
Redgrave le rubano facilmente la scena. Tra le scene più commoventi,
quella in cui Marion dedica a suo marito il suo ultimo assolo: canta
True Colors (qui) con un'intensità e un'emotività da far venire
letteralmente le lacrime agli occhi. Non è intonatissima, ma ha
l'amore nella voce e, nemmeno per un attimo, stacca i suoi occhi da
quelli del marito. Non mi commuovevo per una canzone dalla I dream
a dream cantata da Anne Hathaway in quel capolavoro che è Les
Miserables: tutto è stato possibile grazie a una Vanessa
Redgrave dai capelli cortissimi e dagli occhi limpidi come il cielo.
In quel momento, avrei oltrepassato lo schermo e l'avrei stretta in
un abbraccio da orso. Come è commovente la risposta di suo marito,
che arriva tardi, quando lei non c'è ormai più e lui ha preso il
suo posto in quel coro che odiava tanto: Good night my angel. Per
chi ha amato The Quartet, ecco un film semplice e
straordinariamente ordinario. Non lascerà traccia di sé, è
prevedibile come tante pellicole del genere, ma i produttori di
Kleenex e i sentimentaloni amanti della bella musica
apprezzeranno. Anche solo per le prove straordinarie di due attori
che, quando andranno via, lasceranno un buco incolmabile nel cinema e
nel mondo intero. Una canzone per Marion è una cura per il cancro
della tristezza. Come l'amore, come la musica.
Bho.
Avrò fatto male io. Tutti mi consigliavano la trilogia fantasy
firmata da Kerstin Gier, tutti la elogiavano, tutti ne parlavano con
grande passionalità e trasporto, quindi, quando ne ho avuto modo,
subito mi sono fiondato su Rubinrot, la trasposizione
cinematografica del primo romanzo, edito da noi con il titolo di Red.
Credetemi, scegliere di vederlo è stato un tormento: io, come la
maggior parte dei lettori “provetti”, sono uno di quelli che
prima di vedere un film, deve leggere necessariamente e
obbligatoriamente il libro. Ma ho tanto da leggere, i soldi
scarseggiano e, quindi, ho colto l'occasione al balzo. L'ho visto e,
come la maggior parte di quei tanti titoli che da noi non giungeranno
mai e poi mai, nella versione coi sottotitoli. Il film, ambientato a
Londra, è girato interamente in tedesco, con attori, sceneggiatori e
regista – dunque – provenienti da uno Paese lontanissimo dagli
sfarzi hollywoodiani o dalla savoir fare britannico. Io non ho
alcun pregiudizio verso il cinema europeo – che, anzi, spesso mi ha
regalato vere sorprese e piccole perle di film – ma, brutalmente,
senza giri di parole, vi dirò che ho trovato questo Rubinrot
alquanto bruttino. E, senza conoscere lo sviluppo del romanzo nei
dettagli, non ho trovato in 120 minuti di pellicola ciò che mi sarei
aspettato: il perché del successo contagioso e straordinario di
questa serie. 120 minuti sono tanti per un film del genere, ma, anche
se con un ritmo non sempre sostenuto, il tutto scorre piacevolmente,
senza grossi intoppi. I giovani protagonisti scelti per interpretare
gli amatissimi Gideon e Gwendolyn sono entrambi molto, molto belli e
trasmettono freschezza ad ogni scena, con le loro facce nuove e i
loro romantici battibecchi, ma il difetto peggiore del film è il suo
essere sciatto, senza personalità, arrangiaticcio. Gli effetti
speciali sono accettabili, discreti, e le prove di tutto il cast sono
decisamente nella media, ma è proprio a livello registico che non
c'è gusto, non c'è eleganza o stile. Il tipo alla macchina da presa
riprende, ma esattamente come avrei fatto io - senza alcuna
esperienza – e non riesce a valorizzare il poco che aveva. Nè la
storia, che poteva essere originale (anche se non tanto
originale da riempirci tre libri), né il tema dei viaggi nel tempo,
non supportato da costumi o scenografie degne di nota. E l'ultima
scena, tra l'altro, ricorda preoccupantemente la chiusa del primo
Twilight. E' un film atipico, un po' rozzo, che più attirare fan
nel mondo, casomai, li respinge. Opinabile la scelta di girarlo in
tedesco: viva il patriottismo, ok, ma vedere i personaggi parlare non
propriamente la più dolce e musicale delle lingue sullo sfondo del
Big Ben, fa uno strano effetto (da vera tamarrata.... o da
cortometraggio amatoriale!) e, probabilmente, anche a questo è
imputabile la scarsa distribuzione della pellicola, che già di per
sé non ha le carte in tavola per essere un successone al botteghino.
Magari, con il supporto della bandiera a stelle e strisce, l'idea
centrale avrebbe potuto rendere di più; o magari no. Rubinrot
rimane un film guardabilissimo, con due bei protagonisti
affiatati che saranno la gioia per gli occhi di tanti teenagers, ma
del tutto privo di picchi interessanti. Poco incisivo e realizzato in
maniera discutibile. Sembra uno di quei film che, nei pomeriggi di
noia, del tutto inosservati, passano su Italia Uno o Rai 4.
Che sia questo il suo destino? Per me, da noi, non lo vedremo molto
presto. E, francamente, non se ne sente nemmeno il bisogno.
Fortunatamente, lettori che hanno avuto modo di vedere il film mi
rassicurano: la trilogia, a quanto pare, è un'altra cosa.
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