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Haunter significa fantasma. Titolo particolarmente calzante per la nuova ghost story diretta dal regista Vincenzo Natali, autore di due interessanti film, che, tuttavia, non figurano propriamente tra i miei preferiti: The Cube e Splice. Ci ha abituati a storie di fantascienza originali e surreali, con pellicole non per tutti i palati e, invece, anche se in sordina, è tornato nei cinema statunitensi con un thriller che, invece, potrebbe facilmente conquistare una vasta fascia di pubblico; magari tutto, senza eccezioni. Perché, da una parte, Haunter propone la più collaudata e vista delle storie – una di quelle che, anche se mille volte riproposte, non fanno mai male -, ma dall'altra risulta un'affascinante, ben fatta e coinvolgente novità. Conquista dalla copertina, ammalia dalla prima scena. La giovane e talentuosa Abigail Breslin – star di La custode di mia sorella, Zombieland, Little Miss Sunshine – intrappolata all'interno di un barattolo di vetro. Senza libertà, senza luce, senza aria. Come una farfalla in un retino. Lei è Lisa, la protagonista di questo film e di un giorno destinato a ripetersi all'infinito. Come nel romanzo E finalmente ti dirò addio, ogni giorno è destinata a rivivere lo stesso giorno: a svegliarsi con lo stesso suono nelle orecchie, a consumare il solito pranzo, a vedere la solita puntata della Signora in giallo, a sentire suo padre sbraitare contro una macchina da aggiustare. Il colpo di scena più grande è inserito proprio lì, all'inizio, dove tutti posso coglierlo. La sua casa è circondata da una nebbia perenne e, maturamente consapevole di quella prigione spettrale e perpetua, si è rassegnata a vivere sospesa nel nulla. Finché qualcosa non inizia a cambiare e, poco alla volta, i suoi giorni si arricchiscono di nuovi dettagli. E di nuove visioni. Il padre comincia a fumare, i genitori iniziano a litigare, l'amico immaginario di suo fratello comincia ad essere visibile, solo a lei. Una voce, da un'altra dimensione, inizia a chiamare senza sosta il suo nome: è una ragazza destinata, come tanti prima di lei, alla stessa triste sorte. Una ragazza a cui Lisa, generosa e ribelle, vuole dare un futuro. Anche se il suo tentativo può causarle soltanto un lungo, doloroso calvario: il collezionista di anime che la tiene prigioniera per l'eternità non vuole che la farfalla più unica e preziosa della sua collezione scappi via. Il plot è accattivante, la resa è ottima, la sola presenza di Abigail Breslin pone lo spettatore – praticamente – in una botte di ferro. La trama è semplicissima, ma è inusuale e originale il modo scelto dagli sceneggiatori per districarne i tanti, intriganti elementi. La fotografia è una meraviglia dark. Haunter è un piccolo film che dimostra come una mano esperta alla regia possa garantire grandi, grandissimi risultati. Vincenzo Natali ha talento da vendere e lo si nota nella direzione del cast, nello splendore delle riprese, nella creazione di una lenta, spasmodica e vitale curiosità. Sorprendentemente bravo e crudele è Stephen McHattie, un antagonista agghiacciante che ha un irresistibile non so che del Freddy Krueger di Robert Englund. Tra The Others e Il sesto Senso, Insidious ed Amabili Resti, Haunter è un film che, pur senza apportare innovazioni di alcun tipo e senza l'ausilio di inutili scene splatter, ho giudicato un mistery con i controfiocchi. Bellino, sì.
In uno sperduto e placido paesino della Normandia, la monotonia dei suoi noiosi e indolenti abitanti è stravolta, da un giorno all'altro, dall'arrivo di una nuova famiglia giunta nel vicinato, con pochi bagagli, tanti segreti e un minaccioso cagnolone nero a fare da guardia alla loro villetta non particolarmente ospitale. Si fanno chiamare i Blake: il marito è uno scrittore, la moglie è una casalinga con la passione per la cucina, i due figli sono ragazzi svegli e amichevoli. Su di loro, notte e giorno, è sempre puntato il mirino dell'FBI. Vincolati lì dal progetto Protezione Testimone, i Blake – in realtà – sono una famiglia mafiosa di origini italo-americane, il cui vero nome è Manzoni: hanno pestato i piedi ai tipi sbagliati e, nascosti in un angolo di mondo, sperano di ricominciare, lontani dai consueti ricatti e dalla consueta violenza. Ma abbandonare le vecchie abitudini è difficile! Lo sa bene il bravissimo Robert De Niro che, burbero e arguto com'è, torna metaforicamente ad indossare coppola e mitraglietta, all'interno di questa colorata commedia nera dalle tinte squisitamente noir: lui, premiatissimo e amatissimo per i suoi ruoli in C'era una volta in America, Bronx, Toro Scatenato, Il padrino, Taxi Driver, tornando a giocare con le sue origini italiane e con i suoi sorrisi torvi, veste i panni di un mafioso in pensione, tutto alle prese con la sua bella famiglia e con idraulici da picchiare, vicini da intimorire, assalti da sventare, biografie da scrivere. E' uno di poche parole e con “cazzo...” riesce simpaticamente ad esprimere un'intera gamma di emozioni, cosa non da tutti. Sono state la sua sinteticità e le sue mani d'oro a fare innamorare, un ventennio prima, Michelle Pfeiffer, una donnina tutta casa e chiesa che sarebbe meglio non fare arrabbiare! Dopo Dark Shadows, una Michelle dal viso meno levigato e gonfio del solito, dopo qualche anno dal suo tentativo di mantenersi sempre giovane grazie alla chirurgia plastica, interpreta una matriarca rigorosa e metodica: moglie e madre all'interno di una famiglia decisamente fuori. Due grandiose stelle di quel calibro, come si fa in famiglia, cedono spazio anche ai più giovani del cast, sorprendenti e meritevoli di attenzioni: l'intelligente e astuto John D'Leo e la splendida Dianna Agron, nota per la sua partecipazione alle prime stagioni del mio amata Glee. Dianna, reduce da una particina in Burlesque e da un ruolo di coprotagonista nel dimenticabile Io sono il numero quattro, si dimostra magnificamente cresciuta: è bellissima, è bravissima e – insieme alla Pfeiffer – contribuisce a dare ai pochi personaggi femminili spessore, fragilità e un pizzico di cattiveria aggiunta. Con una collana di perle, i capelli sciolti, il suo vestito bianco da sposina e una pistola tra le mani, sembra la nuova Nikita. Titolo non tirato in ballo a caso, quest'ultimo: infatti The Family – giunto da noi puntualmente, vero, ma con il bruttissimo titolo Malavita: Cose Nostre – è l'ultimo film di un regista francese che ammiro e stimo da sempre: Luc Besson. Della profondità di Angel-A, della struggente intensità di Léon, dell'originalità di Il quinto elemento c'è poco, in questo thriller divertente e piacevole, ma il risultato lascia ugualmente soddisfatti. Sarà che il cast è fantasmagorico, sarà che il quasi impercettibile tocco francese di Besson riesce a sfumare il tutto di malinconia, con uno sguardo arguto e nostalgico che non lascia indifferenti nemmeno un po'. Brillante, lieve, divertente, veloce, maturo: un passatempo di ottima qualità, del tipo di cui, forse, avremmo bisogno più spesso.
Odd, in inglese, significa “strano”. Per un errore all'anagrafe, è proprio quello il nome di battesimo del protagonista di questo film tratto da Il luogo delle ombre, del bravissimo Dean Koontz. Nel suo nome c'è il suo stesso destino. Già, lui è un tipo decisamente strano. Poco più che ventenne, lavora come cuoco in un pub, è innamoratissimo di una ragazza conosciuta da bambino, ma ha una peculiarità tutta sua: parla con i morti e vede mostri orribili, invisibili all'occhio umano, fluttuare intorno a persone in pericolo. Lui, come un supereroe in incognito, salva tutti dal Male annidato nella sua cittadina nel deserto e dà giustizia a vittime innocenti. Ma qualcosa di decisamente preoccupante sta accadendo intorno a lui. Qualcosa di più preoccupante del solito... Aiutato da un simpatico e saggio ispettore interpretato da William Dafoe e guidato dai macabri sogni della sua migliore amica, tra pic nic in cima a un campanile e scorribande notture al cimitero, dovrà sventare un terribile massacro che potrebbe decimare la già ridotta popolazione del suo paese. Dean Koontz è un autore decisamente sfortunato, vissuto per anni all'ombra del grande Stephen King: sono coetanei, scrivono piccole perle d'orrore, hanno una biografia di tutto rispetto, ma mentre King è leggenda, Koontz è snobbato da molti. Proprio come l'autore che ne ha ideato la storia, Odd Thomas è un film decisamente sfortunato e scarsamente pubblicizzato, che probabilmente ignoreranno perfino i fan dello scrittore stesso. Le ingiustizie della vita! Perché Odd Thomas, diretto dal regista di La Mummia e Deep Rising, è un film veramente piacevole e ben fatto, divertente e appassionante. Una bella sorpresa, anche se non memorabile – ma, ora come ora, quale film lo è? Ha ironia da vendere, leggerezza e freschezza, una storia che unisce le atmosfere di True Blood agli spettri di Ghost Whisperer, un ritmo pazzesco. Ma scommetto che molti non ne hanno mai sentito parlare e anche in America, la terra delle grandi opportunità, quest'horror quasi per tutta la famiglia è stato distribuito malissimo. In Italia, però, la nostra Eagle Pictures se n'è accaparrata i diritti, per fortuna. Non è un film di cui non si può fare a meno, ma, in mezzo a tante oscenità osannate da tutti, spicca per il suo spirito lieve, per i suoi piccoli colpi di scena e per il suo romanticismo un po' alla Ghost che, nel finale, strappa qualche brivido. A impersonare il protagonista, il bravissimo Anton Yelchin. L'attore di Fright Night, Mr. Beaver, Star Trek e Like Crazy si mostra inaspettatamente talentuoso, anche in un ruolo banalotto e apparentemente semplice. E' simpatico, con la sua bella voce è un narratore perfetto e, nelle scene più drammatiche, piange a comando, distaccandosi da tanti colleghi che – in alcune situazioni – hanno le guance perfettamente asciutte e emettono incomprensibili mugolii. Agli appassionati, nonostante la semplicità di fondo, potrebbe piacere tanto! Io lo consiglio, ripromettendomi di recuperare il prima possibile i due romanzi della serie giunti da noi.
Simon è nei guai, lo è sempre stato. Acclamato come eroe dalla stampa inglese, si risveglia in ospedale dopo giorni di buio totale. Durante una rapina in un'asta, per proteggere un quadro di inestimabile valore, si è procurato una brutta commozione cerebrale e un vuoto di memoria che lo rende instabile, inaffidabile, confuso. Niente è come sembra. Lui era un complice dei rapinatori, e tutto era semplice scena. Tuttavia, al suo risveglio, il quadro non c'è più. Non l'ha dato ai suoi complici, non ricorda dove l'ha nascosto... L'unica soluzione sembra essere il coinvolgimento nel furto di una bella e talentuosa psicologa che, con le sue arti segrete, è in grado di far sì che – superando il trauma e il dolore – Simon ricordi. Una Londra moderna e illuminata da luci artificiali, una rapina consumata nel lussuoso ed elegante mondo dell'arte, una capolavoro di Goya sparito tra le nebbie di ricordi confusi, un viaggio a tinte forti tra i disegni misteriosi della mente umana. Questo è Trance, l'ultimo film del regista premio Oscar Danny Boyle. Un film raffinato, fatto di tessere di puzzle in disordine e di attimi sfumati magistralmente. Un film imperfetto, ma che mi ha ammaliato fino all'ultima scena, anche se i buchi nella sceneggiatura ci sono e anche se i crime movies non fanno per me. Ma, innegabile questo, l'ho trovato bello. Armonioso e delicato, nonostante la violenza e il caos generale. Un'opera, come il film Stoker, che strega gli occhi con una fotografia d'incanto e che ti abbindola piano, facendoti perdere il filo del discorso, ma mai l'attenzione. E' intelligente per questo, furbo. Senza Boyle alla regia, questo non sarebbe stato possibile. Lui è bravo e sa dirigere attori bravi. Alcuni dei migliori. Perciò Vincent Cassel appare perfetto, nei panni di un malavitoso attento alle belle cose e dal cuore – sotto, sotto – d'oro. Proprio come appaiono perfetti James McAvoy e Rosario Dawson, i protagonisti: un paziente e una ipnotista tra cui si stabilirà un transfert freudiano, che sfocerà in un amore che ha il sapore dell'ossessione e in un'ossessione che ha il sapore della tragedia. Lui – che mi è rimasto nel cuore da Espiazione in poi – convince, come sempre. Rosario Dawson, invece, sfoggia il fascino e la bravura che, almeno per me, non aveva mai mostrato del tutto: protagonista di un nudo integrale che, probabilmente, resterà negli annales, è strepitosa nei panni di un'atipica e fragila femme fatale che si rivelerà la chiave nascosta dei cassetti della memoria del “buon” McAvoy. Ottima la regia, ottima la colonna sonora: immagini e musica vanno di pari passo, in disarmonica armonia, palesando ancora una volta la maestria del regista di The Millionaire, 28 Giorni dopo, Trainspotting. Intensa Here it comes, canzone scritta e interpretata dalla sempre più talentuosa Emily Sandé. Frenetico, imprevedibile, contorto, sexy e romantico, fatto di trame e sottotrame, Trance è un ideale ed ipotetico film di transizione tra Memento e La migliore offerta.
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