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La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, come molti lettori ormai sapranno, è praticamente il mio libro preferito. Il mio libro preferito in assoluto. Molti, quando mi domandano di cosa parli, si sentono rifilare una risposta ambigua, ma che, secondo me, rispecchia perfettamente il meraviglioso esordio della Niffenegger: quel romanzo, infatti, è l'amore vero. Punto. E io, romantico in incognito, amo l'amore. E amo i viaggi nel tempo. E' per questo che so che avrei amato dal primo istante About Time – Questione di tempo. Finalmente l'ho visto e, come da programma, l'ho adorato senza riserve. Sarà che a me questi film fanno sempre un certo effetto, bho. Anche Click – con quello scemotto di Adam Sandler, infatti – mi aveva emozionato non poco. Questa delicata e brillante commedia britannica vive, respira, ride. Pulsa di ricordi, emozioni, gioie, dolori e momenti irripetibili. Ha un cuore che pulsa e che batte, in cui scorre, senza freno, vita pura. E poi fa ridere, ma tanto: adorabile, adorabilissimo, adorabilerrimo. Mi verrebbe voglia di fare un salto a ieri sera e di rivederlo tutto da capo, come se fosse la prima volta; il primo colpo di fulmine. Coglierei tanti dettagli, appunterei tante piccole perle, mi godrei meglio ogni momento. Guarderei il protagonista e, con un moto di riconoscenza, affetto e stima verso l'ex Bill Weasley, direi: Ah, però. Guarda. Sono più bello io, quasi quasi! Domhnall Gleeson, oltre ad avere un nome di battesimo impronunciabile, non è bellissimo, vero. Alto, dinoccolato, magro come un chiodo. Ma è convincente, bravissimo, fresco come un verde filo d'erba appena raccolto. Nuovo, genuino, buono. Similissimo a me, con il suo fare sbadato e insicuro che lo rende maestro di brutte figure; imperfetto, con quelle mani che non sa mai dove mettere e quelle parole che, pur essendo un avvocato dilettante, non sa dosare, e nemmeno un po'. Mi lamenterei della presenza di Rachel McAdams e dei suoi ruoli sempre uguali – vedi La memoria del cuore e The Notebook, Un amore all'improvviso e questo - ma vederla accendersi come per magia e illuminare il buio mi ammutolirebbe all'istante: per questi ruoli è perfetta. Sarà merito del suo sorriso bellissimo: uno dei più incantevoli di tutta Hollywood... uno dei più dolci del mondo. Mi perderei sulle note della delicata How Long Will I love you dell'angelica Ellie Goulding e mi stupirei nuovamente davanti all'ingresso trionfale di una sposa in rosso, con Il mondo di Jimmy Fontana come marcia nuziale e una pioggia da antico testamento a far volare addobbi, fiori, vestiti; addirittura invitati. Mi godrei la regia aggraziata, matura e impeccabile del grandissimo Richard Curtis, papà di Mr Bean e di gemme quali Love Actually e Nothing Hill. Il tutto sullo sfondo di un'Inghilterra grigia, piovosa, ma di uno splendore raro e abbagliante. Questione di tempo si avvale di una struttura che gioca con le ripetizioni, che fa stringere i denti, inumidire gli occhi, vibrare le corde giuste. Parte come una commedia brillante e originale e, nella seconda parte, vira verso il film sentimentale, ma con una naturalezza che lascia storditi, meravigliati. Senza fiato. Le cose capitano e basta. Il destino non si cambia: la persona giusta s'incontra, i veri amici restano, i genitori vanno via, noi cresciamo anche se fuggiamo dalla maturità e dal dolore a gambe levate. Bisogna vivere dell'oggi e del domani, mai diventare schiavi di ciò che faceva parte del nostro ieri. Mi ha ricordato un po' One Day: stesso invito al carpe diem, stesso romanticismo fatto di mille parole di troppo e di pochi gesti, stesso immancabile umorismo british, stesse segrete verità. Basta un armadio per viaggiare nel tempo. Basta un film per portarci lontanissimi dal pianeta terra. Niente effetti speciali, niente magie: i miracoli della vita, i miracoli dell'amore. I miracoli del buon cinema. Questo non è il solito film da cinema. E questo film, almeno da noi, al cinema non ci è mai arrivato. Non so quanta gente avrebbe richiamato in sala e non so la modesta posizione in cui si sarebbe piazzato al botteghino. Perché, se il titolo italiano promette una simpatica commedia romantica all'americana, Jesse & Celeste Forever, in realtà, è tutt'altro: un film sull'amore che non diventa un film d'amore. Tutto qui. Se non sbaglio, in Italia, il film dev'essere passato – per la prima volta – su Sky, con il titolo Separati Innamorati, nel tentativo disperato di destare l'attenzione di un po' di pubblico: gli attori non erano tra i più noti o amati del mondo e, soprattutto, gli sceneggiatori avevano messo a punto una trama che portava ad essere il loro film una strana creatura inclassificabile. C'erano la storia di Ti odio, ti lascio, ti..., ma l'amarezza struggente di Blue Valentine. C'erano i sorrisi, ma la dura verità che faceva puntualmente capolino giusto dietro l'angolo. C'era una trama che si sarebbe fatta o amare o odiare, senza mezzi termini. Ho scritto che questo non è un film da cinema, perché nessuno andrebbe a vederlo con gli amici o, tantomeno, con la fidanzata di turno. Non si ride, non si piange, ma si pensa. E per la riflessione, vi dico la verità, il salotto di casa nostra mi sembra pensatoio più adatto di una sala strapiena. E' il silenzio che serve, in giuste e dosate proporzioni. So che state pensando: Ma gli italiani s'impegnano per trovare titoli tanto brutti?! Separati Innamorati suona stupido, discordante, paradossale. Ma Jesse e Celeste sono esattamente così, per me: stupidi, discordanti e paradossali allo stesso modo. Si divertono come vecchi amici, si stuzzicano, cantano a squarciagola in macchina con complicità e armonia, vivono più o meno nella stessa casa, si salutano ogni mattina e ogni sera con un sonoro Ti Amo. La coppia perfetta, e invece no! I nostri protagonisti non stanno più insieme da un bel po'. Si sono conosciuti all'università, si sono sposati e, con un solo balzo, hanno saltato la temuta crisi del settimo anno: non ci sono mai arrivati. Si sono separati prima e adesso, come se nulla fosse successo, con le carte del divorzio ancora da firmare ufficialmente, sembrano vivere un secondo, platonico innamoramento. Sembrano amarsi più di prima, senza più il matrimonio – tomba dell'amore? - ad unirli. Loro sono felici e per nulla confusi da quella strana situazione, ma non tutti capiscono il gioco infantile a cui stanno giocando senza stancarsi mai. I loro amici di sempre, a un passo dal commettere il loro stesso errore (sposarsi!), li invitano a cominciare a vivere nuove vite, a incontrare nuova gente. Jesse e Celeste si promettono che non ci saranno gelosie, rimpianti, scenate patetiche; si promettono che rimarranno amici. Fino a quando uno dei due si scoprirà felice accanto a un'altra persona e l'altro, colui che rimane, cercherà in tutti i modi di trovare, a sua volta, la stessa felicità perduta: in una sorta di stupida gara da bambini già persa in partenza. Separati innamorati è una commedia indipendente atipica, onesta, realistica e agrodolce. Una commedia americana spogliata di ciò che tanto piace alla gente: un lieto fine, uno svolgimento ovvio, un amore riconquistato a suon di grandi ed eclatanti gesti, romanticismo. E' la vita – quella vera – non contemplata dalle sceneggiature odierne. Tutto è retto da lunghi dialoghi e, anche senza l'ausilio di flashback banali e fumosi, gli attori sono tanto bravi da lasciar percepire cos'era di quella coppia prima dell'avvento imprevisto e drammatico del “disinnamoramento”. Tutto è molto ordinario e tutto è molto originale, come la scelta di non affidarsi ad attori apparentemente nati per quei ruoli: Rashida Jones e Andy Samberg non sono i bellissimi Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt, no, eppure sono perfetti così, nella loro imperfezione. Sorprendenti. Perché lui, con quella faccia da scemo che mi fa sempre ridere in Brooklyn Nine-Nine, sa essere sorprendentemente intenso, dolce, sensibile, serio. Perché lei, vista accanto allo stesso Samberg in I love you, Man, sa essere spietata, inerme, allegra, triste, umana. Significative le preziose comparse di Elijah Wood e Emma Roberts, due strane figure che orbitano, con la loro allegria e le loro debolezze, attorno ai frantumi del cuore di Celeste: lui, nei panni di un frivolo e volgarotto amico gay; lei, una delle attrici più convincenti e complete della sua generazione, nei panni, invece, di una pop-star preoccupantemente simile a Kesha. Per ricordare che l'amore è anche altro, e non una sdolcinata commedia di Garry Marshall. Per ricordare che l'amore – alla fine – è anche questo casino qui... Brutta bestia, i critici cinematografici. Tra me e loro, solitamente, c'è un tacito patto: siamo d'accordo, infatti, sul fatto che non andremo mai d'accordo. Mai, o quasi. Più esaltano un film, più stento a farmelo piacere. Più tessono le lodi smaccate di un regista, più tendo a trovare ostici e oscuri i film di questi cineasti tanto amati universalmente. Ma, mentre Kubrick è un mistero che ancora non capisco come risolvere e la Coppola è – per me – ancora la regina incontrastata di pellicole pretenziose e sopravvalutate, il rapporto con un altro mostro sacro del cinema, Roman Polanski, ha conosciuto i suoi momenti decisamente positivi. Carnage è uno di questi momenti positivi; un film che mi è piaciuto, sì. La staticità mi snerva, la monotonia logora ogni mia resistenza e – con chissà quali pregiudizi – ormai due anni fa, nel 2011, non misi in cima ai film da vedere l'ultimo lavoro del regista di Il pianista, La nona porta, Rosemary's Baby. Non c'era niente che mi attirasse. Non quattro attori grandissimi rinchiusi tra le quattro mura di un appartamento piccolissimo. E poi, vista la mia tipica sfiga, avevo scommesso che il film sarebbe durato la bellezza di tre, quattro ore. In due anni sono cambiate tante cose, e sono cambiato un po' anch'io. Dopo averlo nominato in una lezione di Storia del cinema e su consiglio della mia fidata amica Silvia, mi sono seduto in poltrona – una domenica sera – e mi sono dedicato alla visione di questo film. Un film piccolo, che – con mia grande gioia e sorpresa – durava appena un'ora e sedici. Un film d'autore. Tralasciando la prima e l'ultima scena, ambientate nel verde di un parco newyorkese, tutto il resto si svolge tra il salotto e la cucina, il bagno e l'ingresso di un appartamento arredato con classe e gusto. Due coppie di genitori hanno deciso d'incontrarsi lì, davanti un caffé e un pezzo di torta, per parlare dei loro figli turbolenti: uno di loro, infatti, ha spaccato una mazza di legno sul viso dell'altro, rompendogli labbro e denti. Che disdetta! Cose che capitano, tra bambini svegli! Per fortuna, tra persone civili, tutto si può risolvere, con un richiamo o un semplice ammonimento. Tra persone civili, però... Dietro i loro sorrisi bianchi, i loro vestiti cuciti alla perfezione, il loro fare lezioso, quei quattro adulti per bene sono pronti a far esplodere in mille pezzi le loro maschere fasulle. Sono, in realtà, belve in incognito. Polanski porta sul grande schermo Il dio del massacro, una commedia della scrittrice Yasmina Reza, e lo fa mescolando orrore, ironia, inquietante realismo. Il suo film è una bomba ad orologeria, i cui disastrosi e stranamente comici effetti sono praticamente assicurati. Fa uno strano effetto, regala sensazioni completamente contrastanti: fa ridere, fa pensare, lascia attoniti, spesso. In questo gioco di vizi privati e pubbliche virtù, in questa foto della moralità e dell'immoralità borghese, si lasciano guardare ad occhi sbarrati quattro attori meravigliosi. Credibili ed incredibili, convincenti e sconvolgenti: Jody Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly. Tutti li conosciamo, tutti li associamo sempre ai ruoli che li hanno resi grandi. Eppure la Winslet non è più l'angelica fanciulla di Titanic; la Foster – la più grande del cast, per me – non è la coraggiosa psicologa di Hannibal Lecter; Waltz non è il soldato cattivo di Bastardi senza gloria o Reilly il fedele e sciocco Amos del musical Chicago. Sono quattro pazzi furiosi, senza freni e senza grazia. Quasi senza copione. Mitici loro, incredibilmente affascinanti le alleanze e le gelosie che – in poco tempo – si creano tra le coppie. Carnage è una commedia teatrale, tesa, nerissima, grottesca eppure realistica. Un horror in abiti borghesi con prove attoriali da Oscar.
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