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Buongiorno, amici. Come state? Avrei voluto recensirvi, oggi, il magnifico Shotgun Lovesongs, ma ritornato dal cinema, ho voluto condividere la mia esperienza con Il canto della rivolta con voi. Dopo aver amato La ragazza di fuoco, mi è risultato difficile trovare all'altezza questo seguito che sa farsi ricordare, sopratutto, per quel finale agghiacciante, ma Hunger Games conferma, visione dopo visione, tutti i suoi punti di forza. Katniss Everdeen non ha punti deboli, sotto l'armatura da guerriera. Sono ansioso – ma letteralmente in ansia, già – di vedere il capitolo conclusivo e, mai come questa volta, aspettare un anno mi infastidisce a morte. La trovata di dividerlo in due mi ha urtato per questo e non solo. Sarebbe stato troppo condensare tutto in tre ore? Per molti sì, ma per me in queste due ore – per quanto belle – c'è invece troppo poco. Una trasposizione fedelissima, comunque, di cui vi parlo meglio e senza spoiler nel mio commento. Un abbraccio e a presto. M. «Tutto ciò che era vecchio, in effetti, può tornare di moda. Come la democrazia!» Effie. La recensione del film E così ci sono andato. Con zaino in spalla, biglietto alla mano e ciondolo della ghiandaia imitatrice al collo. Ci sono andato a vedere Il canto della rivolta. L'ultimo Hunger Games. Anzi, il penultimo. Dopo Harry Potter e Twilight, anche il romanzo della Collins – al cinema – è stato diviso in due parti, con la speranza di raddoppiare guadagni già alle stelle. E scommetto che questi guadagni grossi, a sei cifre e oltre, l'anno prossimo non mancheranno. Perché Hunger Games vale tanto. Vale tutti quei soldi, ma anche di più. Al cinema io ascolto le persone intorno a me. Nella sala gremita c'erano spettatori di tutte le età. Le mamme confidavano che erano state trascinate lì dai figli, ma che quella saga, in fondo, piaceva da impazzire anche a loro. L'universalità della trilogia che ha rilanciato la distopia sui mercati letterari era racchiusa nella sala quattro di un grosso, strapieno Multisala che, quella sera, dava tante pellicole, anche se ad assistere alla più attesa eravamo noi. Io ho un brutto rapporto con Suzanne Collins e un bel rapporto con la sua saga; possibile? Penso che Hunger Games sia uno dei pochissimi titoli in cui i film, di gran lunga, sono superiori ai libri. Per coerenza, coesione, impatto. Potenza. Hunger Games è potente, potentissimo. Elettrizza. E' uno di quei film che, di ritorno dal cinema, ti fa compagnia lungo la strada di casa. Ci ripensi e ne parli il giorno dopo. Bene; incondizionatamente bene. Io ho ripensato al Canto della rivolta, credetemi, e male non posso dire. Non vado a dormire senza avere messo in chiaro le mie idee in proposito. Penso che il romanzo conclusivo sia quello che preferisco in assoluto. All'epoca, mi demolì. Ma, a due anni di distanza, se mi chiedessero cosa ricordo di quel romanzo a cui avevo assegnato cinque stelle piene, risponderei una cosa: la fine, e come si arriva alla fine. Della prima parte, invece, poco e niente. Il seguito di La ragazza di fuoco gira attorno a quel poco e niente, per me insignificante. Oggettivamente: si fiuta a un chilometro di distanza l'insensatezza di dividerlo in due, a discapito della forza del tutto. Si sfilaccia la tensione, si sfibra il sentimento, anziché comprimerlo a regola d'arte. La prima parte è quella che risente maggiormente di tutte le ovvie dilungaggini di sorta: più corto degli altri film, questo è però il più parlato. Prolisso invano, anche, perché non so quanto uno spettatore lontano dalla saga letteraria coglierà, vedendoli così, all'improvviso, dei nuovi personaggi in scena. A molti giova il loro rimanere perpetuamente ambigui, altri sembrano semplicemente irrisolti. Ad esempio, la sempre maestosa Julianne Moore è algida, criptica, irreprensibile; Natalie Dormer, invece, tanto incensata altrove, ha un ruolo piccolissimo. Philip Seymour Hoffman – un piacere e un dispiacere, rivederlo, perché fa un effetto strano che non va via dalla pelle – è calcolatore e sornione: non si capisce per chi patteggi. Sempre oggettivamente, però, chissene. Non ha importanza. Viene meno il puro intrattenimento, fa capolino la realtà (e il pensiero va alle nostre guerre e ai nostri dittatori, alle nostre vittime e ai nostri martiri) e il cinema e i mass media giocano a togliersi, per pochi attimi, le loro reciproche maschere. Il canto della rivolta diventa metacinema. Katniss parla davanti a uno schermo verde, le sue battute sono scritte da altri, il suo trucco è pesante e non sembra più, così, la ragazzina ribelle del Distretto 12. I giochi sono finiti, inizia la guerra e anche quella - al giorno d'oggi, anche se il film parla di un futuro non troppo lontano - ha perso la sua violenza spontanea e feroce, gli ideali giusti per alcuni e ingiusti per altri, i vessilli svettanti di un tempo. L'immagine è tutto, e che differenza c'è tra un dittatore ed un altro, ci si chiede, guardando le divise antracite della Coin e le rose bianche di Snow? Ci sono le strategie e gli scacchi matti, qui; le spedizioni, la costruzione nel dettaglio di un'iconica Giovana D'Arco del futuro, le passeggiate sulle case in cenere o in fiamme. Nell'altro ci sarà una strage che non dimentico. Meglio rimandare a domani, essere soddisfatti oggi e avere qualcosa da aspettare, tra un altro anno. Peggio, perché chi ha letto Il canto della rivolta si è comosso, alla fine, e le intenzioni di uno, come me, a cui piace commuoversi, potrebbero sfumare via. In un anno smaltirò la pena, in un anno sarò pronto. Avrei preferito sedermi in poltrona, tuttavia, stasera, e lasciarmi alle spalle un fazzoletto stropicciato e un finale brutale, ma davvero onesto. Il grande film, invece, si chiude come il precedente, sugli occhi spalancati ed espressivi della sua formidabile protagonista. Nel momento che noi lettori supponiamo da anni. Sì, sceneggiatori e regista tagliano dove tutti pensavamo tagliassero. Dove ti strapazzano le viscere per bene. Nel punto in cui il cuore si accorge che sei turbato per qualcosa di grande. Meno accattivante e appagante degli altri, intelligentissimo nei riferimenti e preciso nelle citazioni, ma trattenuto nelle emozioni, dunque. Anche se a quelle di Katniss non c'è freno. Lei è messa a dura prova, spesso e a lungo. I primi piani premono sul suo sguardo blu tremolante e lei li regge alla perfezione. Jennifer Lawrence è un talento raro, colei che fa la differenza – insieme al resto del cast – tra un film per ragazzini e un film per tutti. Il doppiaggio la penalizza – lei è imponente e bellissima, ma ha la voce di una bambina prima della pubertà - ma quando canta e partono i sottotitoli, be', capisci cos'è veramente. Gli altri attori hanno spazio, ma è lei a concederglielo, e questa volta la cosa si nota. Ha uno scambio di battute con una Elizabeth Banks smunta, ma esilarante; un altro con un Woody Harrelson sobrio, ma appena di passaggio; un altro ancora con un Liam Hemsworth che mi è risultato non solo in gamba, ma anche degno di comprensione; infine, con un Sam Claflin che – per via del montaggio serrato – ci sfiora appena col suo dramma scioccante. Si vede; si nota che è come se – schematicamente – tutti dovessero avere per forza diritto di parola. Due ore dovevano essere riempite. Josh Hutcherson, invece, meno presente, è al di là di uno schermo di Capitol City, ma vicino ugualmente: delicato, indifeso, ma pronto a farti fisicamente male, quando sarà necessario. Insospettabilmente convincente, inguaribilmente Peeta. I momenti importanti: tutti concentrati in quell'epilogo teso e struggente, insomma, e nel canto di una ghiandaia umana che, sulla sponda di un fiume, intona la coinvolgente The Hanging Tree come inno e richiamo per le masse. Il canto della rivolta – Parte I, tra le righe, suggerisce tanto, ma è un'avventura che racconta un po' poco. Tanto attuale quanto scarno, fa satira con connaturata classe e apre il blockbuster statunitense alla riflessione. Cosa non da tutti. Ha tanti temi e pochi fatti, ma quel poco è uno spettacolo godibile e misurato insieme, anche se per me inferiore ai precedenti. (7+)
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