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Mr. Ciak: Like Crazy, Gemma Bovery, I nostri ragazzi, Breathe In
Creato il 03 febbraio 2015 da Mik_94Dopo la scoperta che una Felicity Jones al giorno toglie il medico di torno, ho dedicato una sera a Breathe In e quella direttamente successiva a Like Crazy. Invertendoli, guardandoli al contrario. Due visioni con la firma dello stesso Drake Doremus, con protagonista la stessa inglesina dagli occhi verdi verso cui a vent'anni ho sviluppato una cotta mostruosa, che manco alle scuole medie. Per i motivi sbagliati – ma la bellezza della Jones è poi un motivo sbagliato? - sono andato a ripescare molti dei suoi film che, non so nemmeno io il motivo, mi erano sfuggiti. Lei mi piace perché è lei e perché fa un genere vagamente di nicchia che ha sempre saputo toccare le mie corde segrete. E, a proposito di segreti, quando mi chiedevano “Ma Felicity Jones chi?”, io rispondevo “Quella di Like Crazy”, anche se Like Crazy non l'avevo mica visto. Tutti pensavano il contrario; io non davo smentite. Adesso però me lo chiedo. A cosa diamine pensassi, dove diavolo fossi, quando quattro anni fa al Sundance presentavano un film che anche allora mi sarebbe piaciuto. Riassunta, condensata, ma mai compressa a forza – violata – ci viene raccontata una storia d'amore nella sua interezza. Anna e Jacob si piacciono un mondo, ma lui è americano, lei è una studentessa inglese con un visto in scadenza. Imbrogliano per qualche tempo, lei parte, quando ritorna non può ritornare davvero. Problemi con la dogana. Problemi con chi la aspetta a casa. Odorarsi, conoscersi, poi perdersi mai del tutto. C'è parecchio in un'ora e trenta. La spensieratezza degli anni d'oro, il disincanto dell'età adulta sperimentato anche da chi continua ad avere il volto d'adolescente. La fiamma che si raffredda ma non si spegne. Anton Yelchin e Felicity, insieme a una Jennifer Lawrence di passaggio, sono i teneri e convincenti testimoni di un amore di quelli veri, mentale e fisico, che ha bisogno di un tocco, d'un promemoria, per farsi ricordare. O lo si scorda, con il silenzio e la lontananza. Maturi ed immaturi, zelanti e pigri, sono la pioggia, e il sole, e i check in in aeroporto, e le promesse (non) fatte tanto per. Un Doremus più acerbo e introverso, ma già bravo, li inchioda con i primi piani e le spalle al muro, mentre una fotografia opaca e nuda ce li racconta alle prese con il rimpianto. Lui cattura il significato più profondo dell'assenza, il nocciolo dell'attesa, l'eroico tentativo di imbrogliare il tempo e, con una quiete solo apparente, stupisce con trovate brillanti e un montaggio che mi ha regalato spunti di una bellezza impensata – la serie di istantanee di loro a letto, i campi e contro campi che alternano il corpo della Jones a un posto vuoto sul bus, sei mesi di pratiche e ripensamenti sbrigati buttatando avanti veloce. Il pane quotidiano per chi ama le storie d'amore indie, con dialoghi lunghissimi che sarebbero il sogno di ogni giovane attore, momenti di una maturità che strappano il cuore e ti fanno invecchiare con un singolo passaggio di macchina, svolte impreviste per capire davvero le quali devi essere semplicemente un po'... come loro. Un po' così. Così, senza definizioni. Così, come chi quando guarda uno squarcio di storia d'amore pensa già a come andrà a finire. (7,5) Nella lontana estate del quarto ginnasio, adolescente brufoloso dato in pasto a una prof di letteratura indicibilmente maligna, leggevo in spiaggia tutta una serie di romanzi minori che lo stesso Verga aveva scordato di aver scritto e un grande classico, Madame Bovary. Verga, mio acerrimo nemico, l'ho odiato senza troppo sforzo; Flaubert no. Mentre, perciò, qui aspettavano Dio solo sa cosa, io già avevo intercettato Gemma Bovery tra le uscite straniere e avevo avuto fiducia nei distributori italiani, che mi vogliono bene e le buone commedie d'oltralpe non se le fanno scappare. Chi mi legge, sa: che penso che il cinema francese abbia una marcia in più, che non c'è posto più affascinante della campagna normanna e che se ci sono toni irresistibili e una protagonista bellissima, allora il gioco è fatto. L'ultimo film di Anne Fontaine è una deliziosa produzione con suggestioni british e carte in regola perfette. Echi letterari, un epilogo tragicomico eppure divertentissimo, garbo, Gemma Arterton. E lo so che ho appena giurato amore eterno a Felicity Jones, ma tanto mica capisce l'italiano lei, no? Gemma Arteron, mai così bella, quasi da combustione spontanea, ha lo stesso nome del suo personaggio e il destino apparente dell'eroina di Flaubert. O almeno di questo è convinto il suo vicino di casa, un fornaio ficcanaso che legge troppo e vive troppo poco. Quanto può fare un romanzo? Tanto, questo è certo, ma conoscere il finale in anticipo forse potrà cambiare il destino di quella conturbante giovane venuta dall'Inghilterra, con marito americano e una flotta di ammiratori segreti che minacciano la sua serenità? Ispirato a una graphic novel, Gemma Bovery è una riscrittura in chiave moderna di un polveroso capolavoro: operazione rischiosa, ma salvata da quei francesi coltissimi, autoironici, nostalgici, che fanno sembrare cosa da niente qualcosa da maneggiare, invece, con cura. Saranno antipatici, o almeno così dice la leggenda, ma hanno una leggerezza inimitabile. Inutile dire che non ci si annoia mai e che quel loro sguardo malizioso, anche in mezzo a presagi e giochi del destino, diverte. Fattura impeccabile; una barriera linguistica impossibile da comprendere non guardano il film in lingua originale, ma discretamente suggerita dal nostro doppiaggio. Fabrice Luchini, con l'ormone non ancora in pensione, una fantasia che fa guai e sogni erotici in costumi ottocenteschi, è ottimo. Gemma Arteron, con un ruolo cucito addosso su quel suo corpo burroso e cosparso di lentiggini, è erotica e ingenua: impastare il pane è la cosa più sexy del mondo. Per non parlare di quando, in una scena con il fortunato biondino già visto il Les Amours Imaginaires, si sfila l'impermeabile... Mi ha ricordato la Malena di Tornatore, muta e raccontata dagli altri - vicini invidiosi che le guardavano nella scollatura e nel buco della serratura; ma anche una creatura inconsapevole, studiata e manipolata come nell'imperdibile Nella casa, con lo stesso Luchini nel cast, un regista più grande, riflessioni in rima – tra sarcasmo e seduzione – sulla realtà che imita il falso e viceversa. (7)
Gli italiani che riadattano un altro romanzo scritto fuori dai nostri confini. Un romanzo che chi ha letto definisce, spesso, un Carnage, in cui quattro adulti si riuniscono per parlare di un misfatto più grande di una scaramuccia tra bambini. In attesa di vedere I nostri ragazzi – che ha cambiato titolo, ambientazione e forse anche qualcos'altro – avrei voluto recuperare il libro, per dirvi come siamo noi quando diamo un'impronta altra a qualcosa che non ci appartiene. I protagonisti sono due fratelli che non potrebbero essere più diversi. Uno crede nell'onestà, l'altro nel potere dei soldi. Mettono da parte i litigi e le divergente una volta all'anno, durante una cena che è un trionfo di maschere, ipocrisie, chiacchiere stantie. Ma quando si insinua il sospetto di un fatto terribile, quando un interrogativo fa capolino attraverso la tivù che annuncia l'ultimo caso di cronaca, allora tutto si ribalta e l'affetto seppellisce la ragione. Prima distanti, poi quasi complici, i quattro si domandano cosa fare, alla notizia che i loro figli perfetti hanno la coscienza sporca. Con una direzione tutt'altro che pedestre, il regista colpisce per la qualità della scrittura e per diverse scelte formali: i dialoghi densi e i patinati luoghi chiusi si alternano a scene in cui il chiasso, attraverso un uso capace della colonna sonora, è messo a tacere e in cui quelle case futuriste, con le linee dritte e i colori freddi, ricordano prigioni. Tra i quattro protagonisti, decisamente convincenti, menzione per una Giovanna Mezzogiorno invecchiata, ma sempre a fuoco, che è un piacere rivedere: il ruolo sgradevole di una madre disposta a chiudere gli occhi davanti all'evidenza, i vestiti castigati contrapposti a quelli provocanti dell'affascinante Bobulova. Calato nel ruolo quell'Alessandro Gassman che spesso, altrove, stona; padrone, sottile, complicato un Luigi Lo Cascio che con i personaggi impegnativi va a nozze. Scomodo, curato, preoccupantemente vicino, sa come non cadere nel facile moralismo: sarà che una morale non c'è e che quel finale tronco, agghiacciante e inaspettato, ribalta yin e yang. Un quartetto di intriganti personaggi calati in una situazione pericolosa, riflessioni e colpe già mostrate ma che incatenano, un epilogo tragico e farsesco, di un nero che soffoca. Notevole, tutto. E tu, persona corretta e generosa, proprio tu: cosa faresti se i tuoi figli fossero gli assassini di cui hai sentito parlare in televisione? (7)
La famiglia perfetta che apre le porte di casa a una studentessa straniera. Una ragazza timida, pacata: una lettrice e una musicista. Una con gli occhi sterminati, che parla la loro stessa lingua, ma con un accento diverso. Quello britannico, che rende tutto più elegante e formale. Sono in tre, in una villa di campagna lontana dalle luci della città, ma quell'estranea, un posto aggiunto a tavola, un'altra bocca da sfamare, un'altra testa pensante, metterà alla prova i loro equilibri. E nulla è dato per certo, quando ci si mettono di mezzo l'attrazione fisica e qualcosa che, forse, somiglia all'amore che tutti sognano. Le tazze da collezione della mamma cadono a terra in mille pezzi; le vecchie amicizie della figlia sembrano avere occhi solo per la nuova arrivata; i desideri autentici del padre, uomo di mezza età che insegna in un liceo ma insegue la grande musica, fanno prepotentemente capolino, mentre il signor Reynolds si scopre innamorato della dolce Sophie. Breathe In è un dramma indipendente di qualche anno fa, che ho recuperato per la voglia di conoscere meglio e più da vicino quella giovane attrice che in La teoria del tutto mi aveva incantato. Ma quant'è bella Felicity Jones? E quanto è delicato questo film? E quante scarse sono le probabilità di vederlo anche da noi? Sarebbe strano vederlo distribuito. Doppiato. Contro natura, quasi, strappare la Jones da quelle atmosfere tenui a cui appartiene e rendere in italiano i dialoghi intimi che costruiscono questo storia d'amore, che poi è una lezione di respirazione. In inglese, come saprete meglio di me, non c'è differenza tra il tu e il voi. You è pronome di seconda persona singola e plurale, e sono le situazioni a farci capire se, formali, ci si dà del lei, oppure se si è passati, con la conoscenza reciproca, a un rapporto più confidenziale. Mi sono chiesto per tutto il tempo quando i due protagonisti avessero oltrepassato la soglia delle buone maniere per scoprirsi confidenti. Ma, in verità, impossibile dire se la loro relazione vada mai oltre qualcosa. Nascosta, trattenuta, platonica. Breathe in parla di un uomo sposato che intraprende una relazione clandestina con la ragazza che ospita per un semestre, ma non esiste malizia. E poi, ai paesaggi bucolici e ai primissimi piani su quei volti acqua e sapone, si aggiunge la musica classica; la professione del musicista. Bravissimi e naturali la Jones e Guy Pearce, in una prima parte in perfetto equilibrio, pure un po' magica, che quando si scopre terrena, dotata di un peso suo, perde qualcosa. Il film di Drake Doremus è l'equivalente di un sussurrare, di uno sfiorarsi, di un non dirsi, di un camminare in punta di piedi. Un mezzo gesto, perlopiù nascosto, che è significativo proprio perché destinato a non completarsi: a non diventare un dialogo, una carezza, un confronto, una fuga. (7)
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