
Mrs Dalloway è una rete, non un romanzo; e - c'è bisogno di dirlo? - ci sono caduto dentro. A dire il vero, una strana distrazione mi ha accompagnato nella passeggiata di Clarissa: talvolta i pensieri si arrampicavano su per la mia testa appannandomi gli occhi (o, più propriamente, la vista). E ho pensato spesso che, come The Hours, anche Mrs Dalloway sembra sfuggire al racconto della protagonista. Va bene, va bene chi dice che una vita non è mai solo di chi la sta vivendo, ma di chi la attraversa, ma certe pagine, certi scorci dell'anima di protagonisti e comprimari, vanno in primo piano. Penso alla sbalorditiva forza beckettiana della coppia formata dallo straziante Septimus (con le sue visioni, la sua poesia, le voci dal regno dei morti) e la docile, ammutolita Rezia. O alle asettiche e imprevedibili discussioni - o echi di discussioni - senza scopo, senza interesse sull'India, sul governo, sugli assenti, sui presenti, su quanto si invecchia e si muore. Clarissa Dalloway si perde facilmente per Londra, un mattino di giugno, e poi alla sua festa; anche se alla fine, eccola lì che appare.
Mrs Dalloway venne pubblicato nel 1925 (tre anni dopo Jacob's Room, dedicato all'amatissimo fratello Thoby, morto anzitempo). La storia di Clarissa, Peter Walsh, Sally e gli altri segue di appena dodici mesi il nuovo trasferimento dei Woolf a Londra, in quella casa che sarebbe diventata uno dei laboratori culturali della città. Fu il primo dei romanzi più noti della scrittrice: Gita al faro verrà solo nel 1927, seguito a ruota da Orlando (1928) e Le onde (1931), per citare i più famosi. Detta in altri termini, potrei ascrivere Mrs Dalloway a uno dei tanti capitoli di un continuo specchiare il proprio mondo, giacché fortissima è la tentazione di ravvisare una tessitura autobiografica nella scrittura di Virginia Woolf. Ma limitare i suoi romanzi a ditate untuose della sua inquietudine sulla carta è, oltre che stupido, il passo decisivo per perdersi il piacere della lettura e non capirci nulla.

Si ha come l'impressione di dover sollevare cortine su cortine per entrare nel salotto di Clarissa Dalloway, anzi: di esservi risucchiati dentro, salvo poi dover rispettare un rigido protocollo di felicità. Le convenzioni del romanzo di conversazione dell'800 e, direi, ancor più del '700 sono tradotte in un'etica della gioia, in una consapevolezza lacerante della sofferenza che soddisferà i più esigenti fautori del dolore quale fonte battesimale del capolavoro moderno. Con il piccolo particolare che Virginia Woolf si fa beffe di noi e delle nostre teorie, con un'ironia che commuove ancor più delle ferite. Sembra quasi di vederla, questa donna bella ed elegantissima chinare lo sguardo e chiedere che per una sera con lei sia festa, anche se il mondo le si polverizza nei pugni, l'incontrollabile entra in quell'unica sera e lei perde la presa su quella bella giornata di giugno, a Londra.