Muhammad Ali, nato a Louisville con il nome Cassius Marcellus Clay Jr, compie oggi 70 anni. Non è sufficiente dire che è stato uno dei più grandi pugili della storia, il suo nome rappresenta una leggenda vivente, un simbolo, un’icona culturale, qualcosa di più di un semplice atleta che ha primeggiato nella pratica sportiva. Muhammad Ali, in nome di un credo, rifiutò di andare in Vietnam a combattere perdendo il titolo mondiale, la licenza e tre anni e mezzo di attività agonistica; eppure, a dispetto di chi lo aveva ormai dimenticato e considerato un uomo finito, seppe tornare e riconquistare l’onore sottrattogli. La sua lotta attuale contro la malattia non è meno eroica, l’avversario da battere quotidianamente, che si chiama morbo di Parkinson, lo tiene in piedi sul ring da quasi trent’anni. In occasione di questo speciale genetliaco voglio rendere il mio omaggio a Muhammad Ali pubblicando un brano che scrissi qualche anno fa, per ricordare i trent’anni del famoso incontro di Kinshasa contro George Foreman.
Alì, boma ye!
Il caldo non svapora l’entusiasmante attesa di questa notte africana che ci parla ancora di mani strette nel guanto di pelle della nobile arte del pugilato, e narra la favola dei jab, swing, hook. Stavolta c’è da collocare per sempre nella geografia del mondo un paese quasi sconosciuto, farlo diventare il centro della terra, per una notte mostrarlo come luogo privilegiato prescelto per l’Evento.
I due duellanti si affrontano e non sono in campo neutro: al favorito viene riservato un trattamento assai freddo, quasi sprezzante, non perché i pronostici sono tutti a suo favore, ma per l’antipatia della sua figura. Chi è dato perdente invece gioca travolto dall’abbraccio d’amore di un popolo che gli grida: «Boma ye!». Lui è il fratello nero che torna dal paese della sopraffazione, sgrana gli occhi e urla come i suoi antenati, ma per dire: «Non mi hanno abbattuto con le loro fruste, non ce l’hanno fatta a degradarmi come fossi l’ultimo degli uomini. Loro hanno fallito l’ennesimo tentativo di ridurmi alla schiavitù. E allora, eccomi. Guardate il mio viso: è bello, si fonde nella notte e splende, penetra con il suo aspetto fiero il buio denso. E il mio corpo è fatto per danzare sotto la luna, per scattare, correre, dimenare armoniosamente le braccia, scacciare gli spiriti maligni quasi a nascondere le loro brutte facce implacabilmente pallide. Io mi batto contro la morte!»
Inizia la rappresentazione della lotta tra i due “mondi”: il primo nasce a Marshall, nel Texas, e veste i panni dell’ex carpentiere, dell’ex muratore che vince una medaglia d’oro e sventola una piccola bandiera a stelle e strisce rassicurando la classe media, e la sventola alle Olimpiadi di Città del Messico, le Olimpiadi della protesta del Black Power, del capo chino, del pugno chiuso, dei piedi nudi sul podio. Il secondo vede la luce a Louisville, nel Kentucky, sotto le spoglie del figlio di un grafico pubblicitario. È tranquillo, non soffre la fame, ma piange, mio Dio, piange a dirotto perché qualcuno ha rubato la sua bicicletta, il suo orgoglio di bambino di 12 anni. Ma il poliziotto che raccoglie le sue lacrime e la sua denuncia lo prende sotto il braccio e gli suggerisce di difendere ciò che è suo, di difendersi. E sei anni dopo, in mezzo alle architetture che gli architetti non sono riusciti a rovinare, in mezzo alla folla che discende dalla stessa che s’estasiava di fronte al mirmillone, al reziario numida, quel bambino di diciotto anni vendica il furto, l’affronto, con l’oro olimpico.
I due ori non splendono allo stesso modo: da una parte c’è un brillio più carico, più intenso, più avvolgente che ammalia e seduce, e dall’altra una pesantezza che storna, non incanta, consiglia la diffidenza.
Si affrontano finalmente. Adesso sono chiamati a rispondere. E il mondo li guarda.
Il primo atto dello scontro è un’ammaliante danza virile che si contrappone alla forza compatta, non armoniosa. Così la sveltezza dell’agile ballerino è una sintesi di energia, dinamismo e grazia. Impressiona questa provocazione espressiva. Ma la potenza che picchia immobile si lascia sorprendere solo per poco, e reagisce, assale, mette alle corde l’avversario e lo tempesta con colpi alla figura, replica alle frasi di scherno e alla morsa degli arti che intrappolano con un campionario mostruoso di violenza.
«Alì, boma ye!»
«Le sue mani non possono colpire ciò che i suoi occhi non possono vedere» affermava il capolavoro umano prima dell’incontro, ma Angelo Dundee dopo i tre minuti iniziali ha paura e trema per le sorti del suo gioiello.
Il secondo atto è una replica della furia precedente: si rinnova la carica implacabile, assurda, sfibrante al corpo dell’atleta rintanato, addossato alle corde. Dall’angolo gridano «Che fai? Allontanati! Quello ti massacra!», ma il sorriso diventa più potente di questa aggressione fisica impulsiva, perché sussurra all’avversario «Puoi fare meglio di così», e sa che non è vero. Solo impeto, cieco furore, un jab alla mandibola e altro accanimento. La rabbia è il peggior nemico di chi combatte, perché svuota, rende vulnerabile, mette l’organismo alla mercé del dispendio fisico.
«Alì, boma ye!»
Serpeggia il dubbio. Oscuri pensieri di disfatta e ansia nel timore di sentirsi traditi dalla speranza.
Il terzo atto ribadisce tutto con una variante: adesso l’irruenza dell’attaccante riconosce una resistenza inaudita, si direbbe quasi insostenibile. Sembra di pestare un tasto che non riecheggia alcun suono. Il silenzio intontisce e ammonisce. Il texano mena, si agita, e sta a poco a poco scomparendo. Al limite dell’ultima battuta l’incassatore geniale scocca il suo dardo infuocato: è l’avvertimento. Ora si gioca allo scoperto.
«Alì, boma ye!»
Drew “Bundini” Brown rinfresca il viso e il torace del suo campione, ascolta Dundee ripetere le stesse frasi, ma non se ne cura più di tanto. Siamo come in un sogno: accada quel che deve accadere, tanto poi ci si sveglia e tutto finisce.
Il quarto atto ormai è un copione vecchio, logoro, consunto. Balbetta l’attore, dalla sua bocca escono le stesse tirate, stavolta meno appassionate e più tristi. Il buffone sta demolendo il tronfio re a colpi di battute. Gioca a farsi maltrattare, mortificare, schiacciare. La strategia è chiara: incitare la collera ad esaurire lo spirito e l’intelletto.
«Alì, boma ye!»
Sono quasi le 4.30 del mattino e niente sta succedendo. Chi doveva soccombere è ancora lì, gongolante, ghignante. Chi doveva far sfracelli si chiede dov’è andata a finire la vittoria fulminea.
La quiete.
Il quinto atto si apre con due minuti di offensiva pura, la medesima, sempre quella. Il sacco penzolante oscilla resistente e assorbe la vitalità del picchiatore. Sono in molti a non comprendere, continuano a berciare preoccupati. Alla fine della frazione un guizzo porta fuori dal buio delle corde il veggente: è l’ultimo, generoso monito.
«Silenzio. So quel che faccio» zittisce il coach che sbraita, e il coach rimbecca: «Sai cosa stai facendo? Ti stai facendo massacrare».
«Alì, boma ye!»
Il sesto atto: disperazione di chi non piega il ferro e si ritrova in mano una sbarra di gomma; smarrimento del toro che sbuffa, raspa e mugugna; le punzecchiature stanno facendo male, sono fisiche e morali, ti dicono che l’aria sta per mancarti. Barcolla il colosso, forse ricorda che nessuno su questa terra può resistere in eterno.
The Rumble in the Jungle, il rombo nella Giungla è il profondo battito interno che nemmeno lo stetoscopio può cogliere, il boato inarrivabile, l’esplosione senza rumore… ed è la tragedia dell’umanità accorgersi che non sappiamo udire il vero suono della vita.
Il settimo atto pare un riepilogo prima dell’esecuzione. Non c’è più vigore nel duello, solo un vantaggio da parte di chi ha speso meno, pur avendo subito maggiore violenza. E qui è sufficiente accendere una candela per illuminare e illuminarsi, basta una luce tremula di fronte all’oscurità di un impianto che ha consumato tutte le sue riserve energetiche.
«Alì, boma ye!»
Archie Moore è esperto, prevede possibili disgrazie, e consiglia il suo atleta, però viene raggiunto da un oracolo che sentenzia: «Tranquillo, vecchio mio. È tutto finito».
L’ottavo atto ha gli occhi pesti del furioso che va a pezzi. La forza sprecata ondeggia davanti alla costanza immutabile. The Greatest, il più Grande, apre finalmente la porta, esce dalla stanza dov’era rimasto nascosto e si lascia trasportare dentro l’altra stanza. Lì c’è il tesoro. Improvvisamente, dopo aver tastato il muro, avanza e sferra due colpi con il destro. Il forziere sente di star per cedere alla precisione del martello, per questo si gira, quasi per fuggire, ma un altro colpo, sinistro, lo immobilizza… Con un gancio destro, con una sintesi di fermezza, infinità e altissimo ingegno, il texano è piegato, abbattuto, e una lenta caduta, un accartocciarsi incredibile, decreta la sua fine. Non si alzerà.
«Alì, boma ye!»
E Alì riceve impassibile l’Osanna dei ventimila. Ha vinto.
Kinshasa, Zaire, Stadio 20 maggio, 30 ottobre 1974, ore 4.00 a.m., Muhammad Ali batte George Foreman per K.O all’ottava ripresa e conquista per la seconda volta il titolo di campione del mondo dei pesi massimi.
© Marco Vignolo Gargini