Mulholland Drive di David Lynch (2001) è a nostro giudizio la punta di diamante del neo-noir e insieme la sua realizzazione più estrema e radicale. Crediamo infatti che vi si adattino perfettamente le parole di Leonardo Gandini su questo particolare filone cinematografico: “possiamo chiamare (…) neo-noir [un cinema] basato non tanto sull’automatica e superficiale operazione di aggiornamento degli elementi tematici e figurativi dell’epoca classica, quanto su un tentativo di costruire film saldamente ancorati alla contemporaneità, nella descrizione dei personaggi come nel ricorso a un’impalcatura narrativa e stilistica capace, per la sua originalità, di spiazzare lo spettatore”1.
Di quale film più di questo – almeno in anni recenti – si può infatti dire che sia “spiazzante” nei confronti dello spettatore?
Può sembrare un’osservazione superficiale, eppure dà l’idea dell’immediata percezione che ne ha avuto il pubblico, tanto da farlo subito assurgere ad oggetto di culto, da attribuirgli lo statuto di film-rompicapo per eccellenza, dove le intelligenze spettatoriali erano chiamate a sfidare l’intelligenza registica, terreno di battaglia per diverse e spesso antitetiche interpretazioni.
Non vogliamo però addentrarci in queste pur affascinanti sfide: dopotutto qui ci interessa solamente giustificare la frase di apertura, cioè dimostrare perché esso sia un perfetto riadattamento contemporaneo dell’idea di noir. Torniamo dunque alle parole di Gandini.
A questo punto della sua trattazione egli cerca di operare una distinzione tra questa particolare filiazione (o ripresa, o rielaborazione) del filone noir e un’altra forse più facile e riconoscibile, quella in cui si riscontra “il desiderio [da parte degli autori] di omaggiarlo [il noir classico], di citarlo, di rielaborarlo ora in chiave parodica e caricaturale, ora con estrema e calligrafica diligenza”. E’ questa la tendenza in cui viene sancita “l’affermazione del citazionismo, del calco d’autore, dei film realizzati alla maniera di un noir”, tendenza generalmente elaborata da “una generazione di cineasti che conoscono e amano il lavoro dei loro predecessori”, tra la quale “si impone il gusto per la citazione, per la rielaborazione colta e sapiente dei motivi iconografici, narrativi e tematici del noir classico”2. L’autore porta parecchi titoli ad esempio di questa tendenza, tra i quali Chinatown (id., 1974, di Roman Polanski), D.O.A. – Cadavere in arrivo (D.O.A., 1988, di Rocky Morton), Minuti contati (Nick of Time, 1995, di John Badham), per limitarci a fare un esempio per decennio.
Quello che differenzia questi post-noir da neo-noir come Mulholland Drive è che “questi film rinunciano in partenza a uno degli elementi fondamentali del noir classico, quel senso di squilibrio narrativo e figurativo che finiva per sconcertare e disorientare lo spettatore, e per collocare gli eventi al confine tra il territorio della realtà oggettiva e quello dell’allucinazione soggettiva”3. Tutt’altro in Mulholland Drive.
Certo, anche qui ritroviamo l’omaggio al noir anni ’40 nell’iconografia di alcuni personaggi (la dark lady, i gangster, il killer, etc.). Eppure il senso profondo dell’opera di Lynch è altrove: egli non è un cinefilo, non strizza gli occhi a nessuno, i motivi della scelta del noir come genere di riferimento per ambientare la sua vicenda sono più profondi e sostanziali: egli è interessato a raccontare storie che presentano personaggi psichicamente ed emotivamente instabili, storie in cui il loro immaginario si mischia alla realtà. Insomma, nei post-noir citati in precedenza l’omaggio esaurisce l’intera cifra dell’operazione, mentre in un film come Mulholland Drive l’ambientazione noir viene utilizzata soltanto perché è la migliore possibile, la più naturale per il tipo di storie care al regista e soprattutto per il suo modo di raccontarle: narrazioni in cui il piano della realtà e quello dell’immaginario si mischiano e appaiono in scena contemporaneamente, l’uno a fianco dell’altro.
Lynch torna al noir, dunque, perché all’interno dell’universo della narratività hollywoodiana, è il terreno dove ontologicamente si consustanzia la perdita di definizione del confine tra realtà e sogno, il luogo dove “il rapporto lineare tra cose e figure si incrina, (…) [dove] la classicità inizia a intorbidarsi e il linguaggio codificato a impregnarsi di ambiguità”4: è lì che il regista nordamericano ritrova i semi della sua poetica.
Ecco che la presenza nella caratterizzazione dei personaggi di alcuni stereotipi del noir diventa anche un avvertimento per lo spettatore: lo mette sull’avviso, gli dà un primo orientamento di massima sul tipo di storia che egli si troverà davanti e lo indirizza verso il tipo di atteggiamento interpretativo più conveniente ad essa.
Con Mulholland Drive, infatti, Lynch compie un tentativo di trasformazione, di rifondazione della narratività hollywoodiana (Menarini parla di “modificazione profonda della narratività cinematografica”5) a partire dalla commistione tra onirismo e realtà rintracciabile per la prima volta nel noir classico.
Se dunque abbiamo individuato nella “proliferazione incontrollata di atmosfere oniriche”6 l’elemento essenziale e distintivo della noirness, a cosa ci riferiamo quando parliamo di onirismo a proposito di Mulholland Drive?
Per prima cosa, proprio come nel noir classico, “i personaggi sono sovente ritratti nell’atto di svegliarsi o addormentarsi, magari nei luoghi meno adatti e nelle situazioni più inopportune”7:
all’inizio del film, subito dopo il prologo, vediamo la soggettiva di una persona che si corica a letto in uno stato emotivo alterato, seguita da una dissolvenza in nero. Tutta la parte seguente – almeno fino a circa tre quarti del film, quando vediamo questa persona svegliarsi – può essere considerata un sogno della protagonista, o comunque una sua rievocazione in stato mentale turbato e allucinato di alcune vicende precedenti? La nostra interpretazione globale del film avalla questa ipotesi: qui ci basterà notare come questa sia una soluzione esplicitamente incoraggiata dal testo (vedi anche, dopo la dissolvenza, il materializzarsi di un universo oscuro, fantasmatico, più volte segnato dalla figura stilistica della sovrimpressione).
Anche il personaggio interpretato da Laura Harring viene più volte rappresentato nell’atto di addormentarsi/svegliarsi. E il sogno è addirittura chiamato in causa esplicitamente in una delle sequenze più enigmatiche dell’intero film, quella ambientata in un ristorante Winkie’s: qui non solo un personaggio racconta ad un altro il suo sogno, ma addirittura il sogno stesso diventa realtà! Non è quindi solo il tema del sogno ad essere citato esplicitamente, ma proprio la commistione stessa tra sogno e realtà.
Senza contare la comparsa/scomparsa di alcune figure in modo improvviso – quando non il loro ridimensionamento fisico – e del tutto illogico (almeno per quanto riguarda la vita reale), la bizzarria stessa di alcuni personaggi (il cowboy, il nano, il gangster gigante, la “veggente”), atti (la vernice rosa, lo sputo del caffé) e oggetti (la mazza da golf), lo scambio/ribaltamento di nomi e ruoli.
Mai come in questo film, dunque, “è possibile se non probabile passare, senza soluzione di continuità, da una percezione normale della realtà a una deformata” e accade che “lo spettatore venga posto in una condizione di perenne incertezza: egli non sa mai con sicurezza se ciò che il personaggio vede e vive appartiene alla sfera delle sue esperienze concrete e ordinarie (…) oppure a quella della sua mente, turbata al punto da indurlo, quando è sveglio come quando non lo è, a immaginarsi protagonista e spettatore di eventi reali e fantastici”8.
Fin qui le analogie con il noir classico. Ma Lynch va oltre. Se nel noir degli anni ’40 l’onirismo è una tendenza, un velo fantasmatico che aleggia sulla narrazione, oppure più spesso si limita a dare una patina allucinatoria alle vicende o ad alcuni personaggi; pur cioè se molto spesso “la sua presenza è prevalente e in qualche modo dominante”9 rispetto alle modalità narrative e rappresentative classiche, in Mulholland Drive esso diventa una presenza assoluta, che non lascia spazio ad altro. David Lynch spinge sul pedale dell’onirismo, della psicosi e dell’allucinazione fino in fondo. La commistione tra realtà e immaginazione (distorta) è la sostanza stessa di questo film, sono le fondamenta strutturali su cui esso si basa e da cui riceve senso (affermazione che saremmo tentati di estendere a tutta la poetica del suo autore, pur se in modo problematico).
Vogliamo dire che nel noir classico non oltrepassiamo mai la soglia della comprensibilità razionale della diegesi, nonostante questa possa essere parossisticamente intricata come ne Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941, di John Huston) e Il grande sonno (The Big Sleep, 1946, di Howard Hawks), e l’onirismo e l’allucinazione sono dei sospetti, delle allusioni, si potrebbe dire un retrogusto, un certo sapore; in Lynch invece non c’è possibilità di comprensione letterale della narrazione senza ricorrere al mondo interiore dei personaggi, cioè a qualcosa che non percepiamo con i nostri sensi nella realtà. Essa, semplicemente, non avrebbe senso.
Oppure, per usare le parole che Gandini riferiva a Strade perdute ma che ci pare si adattino perfettamente anche al film che abbiamo preso in esame: “l’indefinibilità e l’ambiguità dei personaggi e delle loro azioni è consustanziale al film stesso, e non rappresenta più, come in epoca classica, una sorta di sottotesto che le convenzioni del cinema hollywoodiano cercavano, con più o meno successo, di vanificare e neutralizzare”10.
Cercando di ampliare il nostro discorso, soffermiamoci ora su un altro aspetto della questione, cioè sull’analisi della spazialità e della temporalità nel film noir, aspetti strettamente collegati al tipo di personaggi che lo abitano. Molto comune nei film del periodo classico è l’assenza strutturale dello spazio domestico e del relativo senso di sicurezza di cui esso si fa portatore, “cui fa da contraltare un’iconografia dominata da luoghi concepiti per soste brevi e provvisorie (…), ambienti impersonali, incoerenti, discontinui e in affitto” che “rappresentano tutti il correlato spaziale di una tipologia di individuo che non vuole e non può dare alla propria vita una fisionomia stabile e compiuta”11. In Mulholland Drive ci sono appartamenti in affitto, ristoranti, night club e motel. “Tuttavia, non è accurato affermare che la casa viene, nel noir, eliminata completamente. Più che di rimozione, sarebbe opportuno parlare semmai di corrosione dei valori che le sono propri [allo spazio domestico]”12. E di questo ci sono nel film due perfetti esempi: Adam, il regista, tornando a casa scopre che la moglie lo tradisce, “violando” così lo spazio domestico che teoricamente dovrebbe rappresentare la fiducia e gli affetti familiari.Inoltre, il personaggio interpretato da Naomi Watts scambia la sua casa con quella di un’amica: non è probabilmente possibile connotare maggiormente, in senso spaziale, lo sradicamento psicologico di un personaggio. Betty/Diane è un tipico esempio della categoria succitata, uno di quegli individui “costretti dalle circostanze a vivere alla giornata, di fatto impossibilitati a vedere al di là del proprio presente”, così come si situa perfettamente anche in un altra categoria, di coloro “che, schiantati da esperienze passate, non intendono più cimentarsi con l’arduo compito di costruirsi un’esistenza, e preferiscono dunque (…) abitare la provvisorietà.”13.
Diane Seldwin è un’attricetta di provincia che, dopo aver vinto una gara di ballo al suo paese, tenta la fortuna a Hollywood. Ma non è in grado di costruirsi un’immagine simbolica di se stessa abbastanza forte che le permetta di sostenere con successo un’esistenza all’interno di quell’ambiente sociale. Quando, dopo l’apertura del cubo blu, Diane si rende finalmente conto di chi è veramente, si sente del tutto incapace di affrontare l’esistenza, capisce di non avere futuro se non come personaggio immaginario, diverso da sé. Ella prova disperatamente a reagire, a uccidere Rita e ad affrontare la vita in prima persona: ma è destinata ad essere sconfitta perché non è in grado di rapportarsi simbolicamente al mondo, e diventa preda di pulsioni di morte che la fanno precipitare in un crollo suicida.
Che dire poi di Rita, personaggio che inizialmente siamo propensi a credere reale? E’ una dark lady da film noir che a causa di un incidente stradale perde la memoria. Si ritrova perciò completamente sradicata e priva di qualsiasi coordinata spazio/temporale. Entra in una casa non sua, si addormenta, trova nella sua borsa oggetti sconosciuti e incomprensibili, si sceglie il nome di una diva del cinema, non ha un passato: letteralmente non sa chi è. La conseguenza più logica, proseguendo in questa direzione, è che si scopra che sia – nella seconda parte – un personaggio non reale partorito dalla mente malata di Diane, un personaggio che quest’ultima interpreta e che è completamente staccato dalla sua personalità reale, un’illusione che ella si costruisce per affrontare il mondo esterno essendo, da psicotica, incapace di viverlo con la propria personalità, con un immagine di sé più sostenibile e vicina alla realtà.14
Sia lo spazio che la varietà di personaggi tipici del noir, dunque, contribuiscono a “creare un atmosfera di temps perdu: un passato irrecuperabile, un destino già segnato, una disperazione che pervade ogni cosa”15, “una temporalità sospesa, vuota, priva di senso e di valore”16, segnata molto spesso dal ricorso al flashback.
Un lungo flashback può essere considerata l’intera prima parte del film, circa tre quarti, dove Diane ricorda – con la sua immaginazione allucinata – le vicende che l’hanno portata alla situazione descritta nella seconda parte. Un flashback di una persona psichicamente instabile, quindi, oppure un sogno: infatti il film, subito dopo il prologo danzereccio, è introdotto da una soggettiva di una persona emotivamente turbata che si corica a letto; essa immagina delirando, oppure sogna. Che ciò in fondo non faccia molta differenza non è affatto casuale, perché nel noir succede tipicamente che “vengono immancabilmente associati il motivo del sogno e quello del turbamento mentale. Si tratta di un accostamento (…) funzionale all’espressione di un’idea particolare, quella secondo cui il soggetto del sogno è anche una persona interiormente squilibrata, intellettualmente confusa. Il sogno insomma è un sintomo puntuale di malessere interiore, tant’è vero che acquisisce di volta in volta i contorni dell’incubo (…) o quelli dell’illusione” o “della visione, dell’allucinazione, della fantasticheria, tutti fenomeni che, sul piano della messa in scena nel cinema classico americano, non divergono di fatto dalla rappresentazione del sogno”17. Il cerchio, a questo proposito, ci sembra perfettamente quadrato.
Anche nella parte finale possiamo riscontrare un ricorso insistito al flashback, che determina un ordine cronologico di grande complessità. Molto spesso si tratta di un uso camuffato, il che permette alla diegesi di mantenere la propria ambiguità e di conservare il proprio fascino. Ma a una visione attenta notiamo alcuni piccoli anacronismi riguardanti gli oggetti, anacronismi che si spiegano con l’intreccio di segmenti temporali diversi. Ad esempio in concomitanza con la seconda scena di sesso, quando vediamo ricomparire il posacenere a forma di pianoforte che era stato appena portato via dall’amica di Diane e sparire la piccola chiave blu – che ricomparirà prima del finale segnalando la fine del flashback – che avevamo in precedenza notato sul bordo del tavolino in salotto.
In ogni caso, è comunque un fatto che è praticamente impossibile alla prima visione di Mulholland Drive distinguere con certezza il piano del sensibile da quello mentale dei personaggi, il sonno dalla veglia o ricondurre i diversi frammenti di temporalità a un tutto univoco e logicamente determinato.
Il film – per quanto, come abbiamo visto, dotato di un suo senso preciso e di una narrazione ben individuabile – è costruito appositamente per spiazzare lo spettatore, per lasciarlo senza il minimo appiglio.
Vogliamo chiudere con una breve riflessione su un altro elemento importante dell’universo noir: la notte.
Nel noir il tempo della storia è spesso estremamente breve, tanto da permettere di concentrarsi sull’articolazione interna della giornata stessa. “La notte nel noir (…) assume la forza di un universo a sé stante, autonomo, (…) spazio dominato da forme e regole sue proprie, in definitiva irriducibile alle proporzioni e alle logiche che caratterizzano il giorno”18.
E’ notte quando Rita subisce l’incidente che le fa perdere la memoria, è notte quando Adam Kesher sceglie di incontrare il cowboy – incontro che segnerà il suo cambio di atteggiamento nei confronti della vita – ed è notte quando Rita/Camilla e Betty/Diane entrano nel club Silencio e assistono a una rappresentazione che le sconvolgerà e che darà la svolta alla vicenda: sono entrate nelle profondità del reale, che si smaschera come suprema e continua finzione.
Edoardo Necchio
1 L. Gandini, Il film noir americano, Lindau, Torino 2001, p. 122
2 Ivi, p. 120
3 Ivi, p. 120
4 R. Menarini, David Lynch Drive. Il Mulholland-rompicapo nel paese del cinema in C. Bisoni (a cura di), Attraverso “Mulholland Drive”. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il principe costante, Udine 2004, p. 51
5 Ivi, p. 47
6 L. Gandini, cit., p. 56
7 Ivi, p. 58
8 Ivi, pp. 57-58
9 Ivi, p. 25
10 Ivi, p. 126
11 Ivi, pp. 91-92
12 Ivi, p. 94
13 Ivi, p. 93
14 Per questa interpretazione vedi G. Manzoli, David Lynch, oggetto e soggetto, in C. Bisoni, cit.
15 Paul Schrader, Notes on Film Noir, “Film Comment” primavera 1972, pp. 8-13, in L. Gandini, cit.
16 L. Gandini, cit., p. 92
17 Ivi, pp. 55-57
18 Ivi, pp. 93-94