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Muori, muoio, moriamo insieme: la geografia emozionale del cimitero

Creato il 28 aprile 2011 da Sulromanzo

Muori, muoio, moriamo insieme: la geografia emozianale del cimiteroHai mai spiato il sole cha va a dormire dalle alture marmoree del cimitero di Staglieno, a Genova?

Hai mai baciato qualcuno in prossimità del giaciglio pietroso di Abelardo ed Eloisa al Père-Lachaise, a Parigi?

Hai mai seguito un'ossessione fino a trascorrere la notte nascosto tra le architetture egizie di Highgate Cemetry, a Londra?

Nel tuo cuore si è mai formato un embolo di ansia quasi lussurioso d'innanzi ai vecchi forni crematori del Cimitero Monumentale, a Milano?

I cimiteri non sono solo luoghi in prossimità dei quali le mani eseguono vecchie scaramantiche coreografie. I cimiteri sono anche monumenti assai spesso trascurati, ma soprattutto sono – o possono essere – geografie di spazi emozionali e dimensioni estetiche e – non in ultimo – costellazioni di un immaginario romantico esponenzialmente espresso.

Sul finire degli anni '70 la musica goth (qui da noi conosciuta come dark) ha sdoganato una certa estetica cimiteriale. Tutto è iniziato con quella splendida cover dei Joy Division del singolo Love will tear us apart che riproponeva in tutta la sua fredda dolcezza e in tutto il suo abbandonico languore un angelo sepolcrale del cimitero Staglieno di Genova.

Da allora orde di anime tormentate, sulle cui orecchie vibravano ancora le note elettrificate del post punk, hanno varcato i cancelli dei più bei cimiteri d'Europa nel tentativo di riappacificarsi con una delle estetiche più controverse dell'immaginario contemporaneo.

All'epoca il pellegrinaggio era all'impronta del do it yourself, oggi ci si può avvalere dell'aiuto di qualche prezioso strumento come la “Guida ai cimiteri d'Europa” redatta da Fabio Giovannini e che Stampa Alternativa nel 2000 ha donato al mondo.

Dalla musica è semplice e naturale scivolare nell'ambito letterario, e non solo perché Morrissey e i suoi The Smiths andavano ad aspettare Wilde, Keats e Yeats ai cancelli del cimitero e se ne contendevano l'allure protettrice, ma anche perché l'amore per certi autori non di rado conduce, trepidanti e armati di pazienza, lungo i viali ombrosi alla ricerca delle loro ultime dimore. A questo scopo uno strumento di estrema utilità è il sito www.findagrave.com .

Uno dei cimiteri letterariamente più interessanti è quello di Montparnasse a Parigi. Semplice, non particolarmente grande, pochi alberi, circondato dal quartiere da cui prende il nome e le cui abitazioni ne seguono il perimetro privandolo di quell'atmosfera di sospensione che invece, ad esempio, si trova a circa una ventina di chilometri a nord-est dove ha sede il Père-Lachaise: il prototipo dei cimiteri moderni, da Jodorowsky definito come “pura poesia”.

In questo piccolo gioiello si trova di tutto. C'è Cortazar e pure Baudelaire, Maupassant e anche Beckett, Sartre con la de Beauvoir, Marguerite Duras e Man Ray e Sainte-Beuve, e c'è pure Susan Sontag, sotto una lapide di marmo scuro con incisione dorata che tanto ricorda quella di Proust.

La cercavo con in mano una cartina presa all'ingresso, come al solito approssimativa; degli appunti presi online sull’esatta posizione. In testa ricordavo le pagine scritte dal figlio, David Rieff(“Senza Consolazione”, Mondadori, 2008), in cui si ripercorre la malattia e infine si arriva lì, alla scelta della tumulazione a Parigi. Pagine asciutte che poco concedono agli sfoghi sentimentali, che invece èquello che faccio io una volta giunto in prossimità del letto nero di Susan, incredulo sul fatto che lìpossa esserci qualcosa dell'autrice delle “Note sul Camp”, le mani che hanno lasciato scivolare “L'amante del vulcano”, la corteccia cerebrale che sognava Alice James, la prima autorità morale che ha denunciato le responsabilità americane post 11 settembre... A. intuisce il mio bisogno di intimità e si allontana in direzione della tomba di Serge Gainsbourg. Io mi sento un po' stupido con tutta quella commozione che mi prude addosso e non trovo nulla di meglio da fare che scrivere un biglietto, poche righe di amore timido e pudico, e poi seppellirlo accanto alla tomba, sotto la ghiaia.

Muori, muoio, moriamo insieme: la geografia emozianale del cimitero
I cimiteri sono pozzi infiniti di storie, di aneddoti: vulcani che, malgrado le apparenze, eruttano vita senza fermarsi. Giuseppe Marcenaro nel suo “Cimiteri” (Bruno Mondadori, 2008) ne raccoglie e racconta diverse, tutte dense di fascino, a volte per l'assenza di una tomba, come capita con Walter Benjamin di cui ripercorre gli ultimi giorni spesi nel tentativo di fuggire dai nazisti entrati a Parigi. Ma ci sono anche storie di Brecht, Rimbaud nella sua tomba doppia all'ingresso del cimitero di Charleville, Winckelmann e i terrazzamenti triestini, Edgar Allan Poe con l'enigma della sua dipartita e le tre rose rosse accompagnate da mezza bottiglia di cognac che ad ogni anniversario fanno la loro comparsa sulla sua lapide al cimitero di Westmister Hall a Baltimora, passando anche per Marx ad Highgate e la sua figlioletta segreta che con lui giace.

Con F. si girovagava per i sentieri del cimitero inglese a Roma, gustandoci quella pace atemporale che tra le altre cose ci offriva anche un discreto sollievo dall'afa agostana. Ci si era lasciati andare a qualche tenera effusione su di una panchina in legno (molto english in effetti), con vista Piramide, proprio dietro alla tomba di Keats alla quale avevamo scattato diverse foto, anche se in numero minore rispetto a quelle scattate a quella meraviglia che è la statua Angel of Grief dello scultore statunitense William Wetmore Story. La furia fotografica, tra l'altro, ci era servita da diversivo per non lasciarsi troppo prendere dal senso di struggimento che la visione di quell'angelo addolorato non può fare a meno di suscitare; uno struggimento che prende alle ossa, che addensa il midollo, che scombussola il miocardio al punto da riuscire a farlo tacere del tutto, per qualche attimo.

Dagli altoparlanti iniziano gli annunci dell'imminente chiusura e gli inviti a dirigersi all'uscita, malgrado il tramonto che fa scolorare il cielo nel rosa inviti a non abbandonare quella panchina e la sua dolce indolenza e la colonia di gatti che poltrisce intorno.

Al secondo avviso, seguendo l'esempio degli altri – pochi – avventori, anche noi lasciamo la parte vecchia del cimitero e imbocchiamo la direzione dell'uscita costeggiando quello che è a tutti gli effetti un giardino botanico. Quando lo sguardo, distratto e non sazio, cade su una lapide: “In loving memory of our son ADRIAN CHARLES RILEY – writer & poet – 09.VIII.1945 – 10.VII.1971”.

In seguito cercherò di scoprire qualcosa su questo giovane poeta, ma la ricerca non porterà ad alcun risultato. Sul momento però mi lascio incantare dal titolo di 'writer & poet', dalla morte a 26 anni, dalla sepoltura a Roma... e inizio a costruirmi pezzi di puzzle e ad incastrarli qua e là: me lo vedo giunto nella città eterna dalla provincia americana, desideroso di vita, voglioso di santità e marciume, col bisogno incontinente di scrivere di quel marciume e della santità che lo porteranno a morire su di un letto come Chatterton nel dipinto di Henry Weils, ma senza riuscire a lasciare il suo nome in nessun posto ad eccezione di quella lapide, lontana.

Tendenzialmente, in narrativa, i cimiteri sono presenti soltanto come paesaggio gotico o ambientazione horror. Poche eccezioni, tra cui ci piace ricordare Antonia S. Byatt che nel suo “Possessione” (Einaudi, 1992), nel finale, riprende la vicenda di Dante Gabriel Rossetti e della riesumazione del cadavere della moglie, Elisabeth Siddal (per eventuale approfondimento http://www.sulromanzo.it/2009/11/gioco-daudet.html). Dal 1819, anno della pubblicazione di Vampiro di John William Polidori, al cimitero non è stato concessa altra possibilità espressiva, divenuta talmente scontata che i nostri vampiri contemporanei, quelli di Twilight & Co. e quelli di True Blood & Co., hanno deciso di farne a meno e non includerlo tra i fondali scenografici.

Un esempio un po' diverso, sulla scia della lettura iper romantica data da Francis Ford Coppola al Dracula di Bram Stocker, è un raccontino contenuto nell'antologia Man on man 1 (a cura di Daniele Scalise, Mondadori 2002). L'autore del racconto in questione è Marco Mancassolae la narrazione è quella di Luca tende la mano dove due giovani amanti, vittime di un incidente stradale, di notte in notte si svegliano dal loro letargo e fuoriescono dalle loro tombe per incontrarsi e realizzare che il loro amore non riesce a venire a patti con la decomposizione dei corpi e tentano nuove forme di contatto e comunanza mentre i ricordi della vita conclusa, anche i più insignificanti, acquistano un senso e sembrano non dargli scampo.

Muori, muoio, moriamo insieme: la geografia emozianale del cimitero
Era una domenica di novembre, l'ennesima domenica piovosa che ci aveva costretti a non prendere quel treno per Torino che veniva rimandato di settimana in settimana. Dopo un pranzo arrangiato e non molto loquace, mentre l'acqua dal cielo sembrava essersi concessa un riposo, desiderosi di assaporare un'aria diversa da quella chiusa di casa, siamo usciti e a piedi abbiamo iniziato a camminare in direzione del Cimitero Monumentale. Qualche minuto dopo avere varcato l'ingresso l'acqua ha ripreso a piovere, ma con lentezza, ancora in fase di risveglio. V. ed io ci aggiravamo stretti sotto un ombrello rotto, tra le foglie gialle che coprivano i bronzi e il marmo muschiato di quella distesa di tombe, in quell'atmosfera che non avrebbe potuto essere più perfetta. La sua Canon si concedeva diversi scatti e ci dava modo di scambiare qualche parola in quello strano pomeriggio in cui chissà quali sedimenti ostruivano la comunicazione, sedimenti che franarono alcune ore dopo concedendoci un riavvicinamento tanto improvviso quanto intimo.

L'acqua pioveva con sempre maggiore virile arroganza, ma non era sufficiente a indurci a porre fine a quella promenade probabilmente anomala, di certo marginale, come marginale è ogni gesto in questo liquame di incontri che annullano la prospettiva sul davanti.

Per trovare qualche attimo di tregua, confortati da quella solitudine che pareva assoluta, ognuno di noi perso nella sua personale forma di autismo, siamo entrati in un colombaio sulla parte nord del cimitero. Era grande, grigio, perfetto coi suoi marmi sporchi e graffiati, una scala abbandonata al centro e la sua mescolanza di fiori in marcescenza. Sul fondo c'erano dei vecchi forni crematori, chiusi da porte in legno ricoperti da scaglie di colore marrone, sormontate da una scritta in latino in quello che fu oro.

Abbiamo aperto le porte e scoperto delle nicchie consumate dal fuoco in cui il nero della fuliggine aveva tracciato confusi disegni, che più tardi, dagli scatti della sua Canon, abbiamo esaminato in cerca di tracce ectoplasmatiche; senza esito, ovviamente.

Ce ne stavamo in silenzio davanti a quella porta dischiusa, imbarazzati nel trovarci davanti a quel letto dove chissà quanti corpi erano stati ridotti alla loro essenza biblica. Noi lì vivi, vicini, separati, con gli occhi che si guardavano di nascosto; un po' inquieti.

Sulla strada dell'uscita ci imbattemmo in una visita guidata: la vita si riprendeva i suoi spazi, anche lì; non troppo tardi si intrometterà anche tra noi e dopo un’umiliante carezza tra i capelli, in un poco luminoso androne delle scale che ricorderà proprio quel colombaio, ci posizionerà, continuando il suo caotico gioco di nonsense, su porzioni lontane del tavolo da gioco, privandoci di quella dignità che, in uno spazio dove la metafisica ha la stessa rilevanza di un ventilatore spento, solo la morte o le parole accuratamente scelte riescono a concedere.


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