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Murato vivo

Da Ilgrandemarziano
Murato vivoSono posseduto. E questo post nasce come un maldestro tentativo di esorcismo fai-da-te. Perché ormai è da quattro giorni che sono in questo stato e non riesco a uscire dal tunnel, come la puntina impazzita di un disco che salta da un pezzo all'altro e non arriva mai in fondo, pietrificato come uno che si è trovato al cospetto di Medusa e non ha potuto fare a meno di guardarla dentro quei suoi occhi di mercurio. Come trovarsi di fronte a un mito. Che tu lo sapevi da ben prima che era un mito, sapevi quali erano le regole, eppure non potevi prevedere la tua reazione. Ma concedetemi un passo indietro. Anzi due.
Anzi tre.
Nel primo ci sono le pareti di una stanza. Da adolescente. Non ci sono poster di cantanti. Non mi sono mai nutrito di mitologie, né pop, né rock. A dispetto del fatto di essere sempre stato un vorace consumatore di musica, non ho mai sentito il bisogno di appendere altari cartacei intitolati ai miei idoli, cui affidare l'incertezza della mia identità. Forse perché non era poi così incerta? Non lo so. Vedo solo una vignetta di Snoopy e le locandine di due film: Indiana Jones e l'ultima crociata e Ritorno al futuro. Come se il mito potesse passare solo attraverso le immagini di una finzione conclamata. Anche se ho idea che fosse più che altro una questione di estetica e di colori. Nel complesso scorrendo il nastro del tempo vedo in giro una crescente quantità di LP dei generi più svariati, che poi sono diventati CD. Eppure mai nessuna Madonna votiva.
Murato vivoIl secondo parla di una scoperta. Non so perché sono sempre stato fissato con la musica. Forse per merito di uno strano giro di coincidenze che facevano sì che in pasto al mio mangiadischi in perenne crisi d'astinenza finissero quantità ziopaperonesche di 45 giri dismessi dal juke-boxe di un bar di amici. Perché nessun altro in casa aveva l'abitudine ad ascoltare musica. C'era di tutto, da Battisti ai Beach Boys. Da Gigliola Cinquetti a Santo & Johnny. Roba da juke-box, insomma. Poi ci fu quella volta che finii a casa di un cugino molto più grande di me (saranno stati ben sette/otto anni) che vedevo di rado e lui aveva questo grande disco da grandi con una copertina da paura. Nera (nera!), con un triangolo in mezzo e una specie di bizzarro arcobaleno sghembo che spuntava da una parte. Per non parlare dell'altro zio, sempre con quei dischi là, bocconi troppo grossi per le fauci del mio mangiadischi. E una copertina con due tizi tutti elegantini, in mezzo a una strada desolata, che si stringono la mano, ma nel contempo uno dei due brucia. E veniva da chiedersi, ma è colpa della stretta di mano, se brucia? E perché l'altro non fa niente per salvarlo? Altro che vorrei che tu fossi qui. Sarebbe molto meglio se fossi da un altra parte! Ma quando li mettevi sul piatto dei grandi, quei dischi, usciva fuori una musica pazzesca, che mi faceva brillare pazzo come un diamante. E mi lasciava nell'orecchio la fame di quei suoni che non sapevo dove andare a ripescare. Del resto probabilmente con la lettura ero alle prime armi. Figuriamoci capire l'inglese. E comunque su quelle copertine non c'era alcun indizio, nessuna scritta, solo il più fitto, inesplicabile mistero.
Murato vivoIl terzo è sul riconoscimento dell'arte, della creatività, del talento e, in ultimo, di quella mescolanza indefinibile di attitudini denominata volgarmente genio. Sono faccende che si imparano con l'età, l'esperienza, la cultura. Come affinare la sensibilità di un'antenna per captare frequenze sottili e armoniche superiori. Non si finisce mai di farlo, perché il mondo è analogico e le sue sfumature sono troppe per una vita sola. Così, oggi è questa l'unica mitologia che riesco a contemplare. Una mitologia che dunque non è adorazione, ma inchino di fronte a qualcuno che è (stato) capace di creare qualcosa di unico, dal nulla. Qualcosa di cristallino, di levigato, di un materiale alieno immune alla corruzione del tempo e della noia, dotato della straordinaria proprietà dell'evocazione. Può essere un musicista, uno scrittore, un regista. Non importa. Alla fine è un demiurgo di spiriti ed emozioni. Ebbene, tutto questo sui Pink Floyd l'avevo già capito da un pezzo. Ma vedere The Wall dal vivo, e Roger Waters sul palco iniziare intonando questa e rendersi conto di aver perso la ragione per almeno dieci minuti buoni come non ti è mai successo in vita tua, come nemmeno pensavi potesse essere possibile, sopraffatto da uno scollamento mitologico, in preda a una crisi acuta da Sindrome di Stendhal, in viaggio solo andata dentro una sensazione d'altromondo, è qualcosa che lo capisci dai numeri da circo che fa la tua spina dorsale, che ti resterà dentro per sempre.
D'accordo, ma cazzo, almeno vorrei riuscire a togliermi dalla testa Comfortably Numb!
/continua

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