Ma ve lo ricordate che, fino a non molto tempo fa, se si voleva suffragare una notizia o avvalorare una convinzione si diceva: l’ho letto sul giornale? Oppure: l’ho sentito alla televisione? Vi risparmio osservazioni ormai banali sulla tv cattiva maestra o sull’informazione drogata o sui media embedded e entusiasticamente allineati come tante agenzie Stefani a sostegno dei governi.
Fatto è che quando ci capita sotto gli occhi una denuncia accorata o ascoltiamo una reprimenda sui vizi italiani, primo tra tutti la colpevole trascuratezza riservata al nostro patrimonio artistico e soprattutto se provengono da pulpiti indifferenti alla distruzione di cultura, istruzione, lavoro, diritti, insomma democrazia, siamo ormai inclini a esercitare un legittimo dietrismo e a nutrire una certa diffidenza. Quella che nutro io, tanto per fare un esempio, nei confronti della sdegnata disapprovazione con la quale ogni anno, proprio in primavera, si riporta la top ten dei musei più “popolari” e visitati del mondo, e nella quale ogni anno non compaiono quelli italiani, salvo quello della Città del Vaticano, del quale, misteriosamente, non si possiedono dati in merito a eventuali finanziamenti dello Stato italiano e annoverato nella graduatoria al pari di un’istituzione straniera, autonoma ed ospite non pagante tra noi.
Infatti secondo la rilevazione i 10 musei più frequentati e affollati sono il Louvre di Parigi con 9,3 milioni di visitatori, il Museo Nazionale di Storia naturale di Washington con 8 milioni, il Museo Nazionale Cinese a Pechino con 7,5 milioni, lo Smithsonian National Air and Space Museum di Washington con 7 milioni, il British Museum a Londra con 6,7 milioni, il Metropolitan Museum a New York con 6,3 milioni, la National Gallery di Londra con 6 milioni, i Musei Vaticani con 5,5 milioni e il Museo di storia naturale a Londra con 5,3 milioni.
E quindi giù con le critiche, con le invettive, con la deplorazione. Ma soprattutto con la rituale litania di luoghi comuni sui nostri beni, comuni appunto, che non sappiamo far fruttare, con l’inanellarsi di stereotipi sulla irrinunciabile opportunità di convertirli in profittevoli prodotti e proficue merci, proprio come si è fatto in una città che potremmo considerare un laboratorio della commercializzazione più volgare, del marketing più sciagurato, dello sfruttamento più gaglioffo, grazie al suo ex podestà e al suo degno successore, e alle concessioni generose di Ponte Vecchio o di Santa Maria Novella per le adunate conviviali dei compagni di merende, o ai buchi inferti al Vasari ridotto a groviera in cerca di leonardeschi strati sottostanti, più prestigiosi e redditizi, per non dire di allegre ferrovie sotterranee, scriteriate pavimentazioni, volumi zero promossi a festose speculazioni. Ma come conseguire l’agognato traguardo di fare dei nostri beni culturali un’appetitosa michetta, come dichiarò un ministro del passato e pensano quelli recenti e vigenti, fantasticando di circenses al Colosseo e sovrintendenti manager, magari venuti da fuori? Come “valorizzarli” perché producano come non sanno più fare le nostre imprese? Ma è ovvio, aprendo al provvidenziale mercato sotto forma di mecenati, testimonial, acquirenti e noleggiatori, pronti a apporre il marchio, a convertire aree archeologiche in passerelle di intimo, musei in scenografie per convention, siti storici in ambientazioni di spot, monumenti in logo pubblicitario, come d’altra parte si fa fin troppo e troppo poco è stato denunciato perché la macabra ossessione che agita l’immaginario del ceto dirigente e padronale è che quello che c’è di bello e di tutti è invece suo, che se non lo è, è autorizzato a togliercelo e sfruttarlo per tornaconto o anche solo per esercitare possesso, potere, arroganza e prepotenza.
Poco vale cercare di far capire a chi si è fatto colonizzare anche l’immaginario da modelli che si sono già rivelati perdenti, che non c’è nulla di ragionevole, vantaggioso e fecondo nell’esperienza statunitense collaudata da alcuni musei tra i quali il MoMa di alienare opere particolarmente ambite e cederle a opulente e già pingui collezioni private, in modo che sonnecchino dentro a algidi caveau e che ne escano solo per essere esibite in eventi molto mondani. Anche se il nobile intento della privatizzazione è quello di ripianare debiti delle prestigiose istituzioni o di accaparrarsi altri capolavori in grado di accrescere reputazione del museo, ma soprattutto del suo curatore.
Poco vale mettere in guardia dalla tentazione di replicare in questo contesto la cosiddetta valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico tramite svendita, che si è rivelata a un tempo un insuccesso economico e una criminale abiura a un obbligo costituzionale, che è quello della cura, tutela e utenza collettiva dei beni comuni.
Poco vale rammentare che l’esempio del Louvre, come formidabile e inestinguibile macchina per far soldi è il meno appropriato, che il Museo parigino coi suoi tanto decantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi ha un 40-45 % di disavanzo annuale. E che vive e gode di lustro mondiale non certo grazie a biglietti, ingressi e sponsorizzazioni, ma in virtù di ingenti e insostituibili investimenti statali. E che comunque il passivo nel bilancio dell’istituzione, coperto dal denaro dei contribuenti, rappresenta un nobile e celebrato attivo in quello della “grandeur” e della fama francese. E che qualche esperienza di spericolata sponsorizzazione si è rivelata un tonfo che ha offuscato l’immagine del Louvre, come nel caso della molto discussa e discutibile personale di un misterioso artista e mecenate coreano, rivelatosi una poderosa “sòla” in cerca di fare affar i con la copertura di benefattore.
Poco vale ricordare che il milione e 700 mila visitatori degli Uffizi, se raddoppiati o triplicati, non ci “starebbero” per via di quella legge dell’impenetrabilità dei corpi, poco popolare come spesso accade alle leggi nel nostro Paese, se si lamenta anche che nel centro storico romano non circolino le valanghe di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando che a Roma il centro storico medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, a differenza che a Londra, Parigi, o Berlino, esiste con la sua fitta trama di strade, viuzze, vicoli e piazzette, che non devono essere “dilatate” a beneficio della grande greppia in onore dell’Expo o in un luna park. E omettendo che l’Italia offre più una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma: Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, e Mantova e Parma, e Assisi e Pompei, e Lecce e Ferrara. E propone centinaia di “gemme” minori, sparse sul territorio in una magnifica diaspora, piccoli centri, monumenti, chiese che nel Mezzogiorno conservano circa due terzi del nostro patrimonio artistico.
E poco vale anche rivendicare che i nostri musei, che non sono mai accatastamenti artificiali e recenti di opere, ma invece i luoghi storici di lunghi processi di arricchimento, che in quanto tali assolvono una funzione civile e sociale aprendosi ai cittadini, tutti, che hanno il diritto di goderne, anche fosse soltanto per farsi un selfie, nella speranza che il piacere della bellezza e della cultura siano contagiosi.
Ma invece vale la pena di reagire a queste menzogne che vogliono persuaderci dei benefici della rinuncia a quello che è nostro, siano diritti, certezze, garanzie o istruzione, cultura, memoria. Che se proprio siamo costretti ad abdicare, a capitolare, a desistere preferiamo farlo con l’Expo, con la Tav, con quelle grandi opere costruite sulla resa della democrazia.