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Music to light your joints to #12: sei donne per al-Hashīshiyyūn

Creato il 28 novembre 2014 da Cicciorusso

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Sei gruppi tutti accomunati dall’avere una donna alla voce. La metà di essi non c’entra nulla con stoner, doom e affini, li ho inseriti per giustificare il titolo.

BLACK MOTH – Condemned to hope (New Heavy Sounds)

Li avevamo scoperti dal vivo di spalla ai Red Fang ed erano diventati subito il nostro gruppo preferito del mese, anche perché ci eravamo presi una mezza cotta per la polposa (e bravissima) Harriet Bevan. Al secondo album, la musica dei Black Moth continua a essere un divertente patchwork di stoner, post punk, metallo, garage e vattelapesca. I ragazzi di Leeds oggi scrivono pezzi con una struttura più rifinita e basata sul riff, il che esalta ulteriormente il loro spensierato eclettismo. Condemned to hope è un frullatore quasi tarantiniano dove passano i Black Sabbath come i Depeche Mode, tra canzoni da macchina sfascione come Room 13 e punte di sbrocco totale come Slumber with the worm, un cazzeggio blueseggiante che a un certo punto, senza alcun motivo plausibile, lascia spazio a un’estemporanea sfuriata black metal (sulla carta sembra una stronzata ma vi assicuro che riescono a farlo funzionare). Manca un singolone come Land of the sky ma, nel complesso, preferisco Condemned to hope al  precedente The killing jar. Tuttavia comprendo chi, come Charles, è del parere opposto, dato che, oltre all’effetto sorpresa, è in parte svanita quella componente di irrequieta sgangheratezza che costituiva parte del fascino del debutto.

THE BIRTHDAY MASSACRE – Superstition (Metropolis)

Mi innamorai follemente di loro ai tempi di Violet, un irresistibile cocktail di rock industriale piacione e synth pop che ogni tanto strizzava l’occhio alla new wave degli anni ’80 più sputtanata con plagi troppo espliciti per essere involontari. Il successivo Walking with strangers, pur grazioso, mi aveva un po’ deluso e, col tempo, li ho persi di vista, tanto che il penultimo Hide and seek mi era pure sfuggito. Dopo aver ascoltato Superstition, mi sono convinto che i The Birthday Massacre siano stati, fin dall’inizio, un gioco destinato a durare poco. Questo non è un genere dove puoi andare avanti per sei dischi rimestando la stessa zuppa con variazioni minime. Restano un gruppettino carino piccino perfetto da mettere su per creare l’atmosfera a cena con l’amica porcona ma, ricordando quanto mi avevano preso all’inizio, è difficile non pensare che si siano un po’ persi per strada.

IN THIS MOMENT – Black widow (Atlantic)

Almeno le Butcher Babies non cercano di essere nulla di diverso da quello che sono: due spogliarelliste che sbraitano e fanno vedere le tette (finte). Maria Brink invece si prende sul serio. Un paio d’anni fa aveva messo le chiappe in piazza per protestare contro il femminicidio sulla copertina del singolo Whore e ci sembra una cosa giusta:

Ovviamente sono americani e fanno un metalcore talmente abominevole che in confronto i The Agonist sembrano gli At The Gates. E credo di non avere altro da aggiungere, salvo un altro paio di foto per aiutarvi a inquadrare il personaggio:

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Anche Maria Brink avrà dei fan come quelli di Alissa White-Spruz, talmente disturbati da considerare sensato cercare su google roba come Maria Brink anal, Maria Brink interracial o Maria Brink facial? O almeno qualche onesto rattuso che digita i più plausibili Maria Brink naked, Maria Brink boobs o Maria Brink feet? Nella speranza che Blog di donne belle ci dia la risposta, stiamo tenendo in ostaggio lo strofinaccio di Burzum che Trainspotting ha appeso sopra il letto per convincerlo a scrivere una nuova puntata.

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MYRKUR – Myrkur (Relapse)

Le premesse sono abbastanza allucinanti e il risultato non è da meno. Amalie Bruun è una modella danese che canta in un gruppo electro indie pop o quel diavolo che è chiamato Ex Cops. Fa questa roba qua, insomma:

La biondona è appassionata di black metal e, citando Darkthrone e Ulver tra le sue influenze, ha messo su una one man band (il primo precedente, che io ricordi, dovrebbe essere l’irachena Janaza, che non approfondimmo per mera accidia) il cui ep d’esordio esce addirittura su Relapse. Il retroterra, ascoltato il dischetto, sembra però quello di una che ha scoperto il black metal leggendo Pitchfork, tra capisaldi mal digeriti e fenomeni da bestiario medievale come i Deafheaven. I pezzi non hanno una struttura comprensibile e vanno avanti saltando di palo in frasca tra voci angeliche alla Dead Can Dance, tupa tupa con riff zanzarosi d’ordinanza e tentativi di screaming, svarioni in territori post-hc all’acqua di rose e addirittura chitarrine shoegaze. A me fa molto piacere che le indossatrici danesi ascoltino i Darkthrone ma sono un po’ i momenti in cui pensi che Kanwulf avesse le sue ragioni quando faceva il test di conoscenza sul black metal a chi ordinava i dischi dei Nargaroth.

ALUNAH – Awakening the forest (Napalm)

Partiti da uno stoner abbastanza standard e cannarolo, gli Alunah si sono progressivamente spostati sul doom. Il terzo full Awakening the forest spinge ancora di più sull’immaginario occultista e stregonesco da film di serie B per il quale andiamo tanto matti noialtri ma gli inglesi mantengono un approccio troppo solare e arioso per evocare veramente i demoni della foresta. Al primo impatto mi erano piaciuti molto ma, dopo ascolti ripetuti, il mio iniziale entusiasmo si è decisamente smorzato. Come sottofondo vanno pure bene ma, sulla stessa falsariga, meglio un gruppo più classico e sabbathiano come i The Wounded Kings.

WITCH MOUNTAIN – Mobile of angels (Profound Lore)

Uta Plotkin se ne è andata dai Witch Mountain qualche mese fa ed è una pessima notizia. Ha però fatto in tempo a registrare un ultimo album, il quarto della band di Portland (da non confondere con i crucchi Mountain Witch, rifattisi vivi l’anno scorso con Cold River). Mobile of angels è l’ennesimo centro firmato Profound Lore. La cantante trascina con carisma suggestive marce verso il nulla impreziosite da un gusto non comune per la melodia acida dal sapore sixties e da un senso del groove che consente di farci scapocciare come ossessi con il solito riff scippato a Iommi e già sentito decine di volte (mica ci riescono tutti). Che si conceda uno screaming sommesso in Can’t settle o che diriga il rituale di Your corrupt ways da vera sacerdotessa narcosatanista come piace a noi, la vera protagonistà è lei. Non sarà semplice da rimpiazzare. Uno dei più bei dischi doom usciti dagli Usa quest’anno. Alla prossima, amici, e mi raccomando, non accettate iniezioni di marijuana dagli sconosciuti.



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