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Music to light your joints to #15

Creato il 09 dicembre 2015 da Cicciorusso

devilsharvestEssere appassionati di doom porta a seguire decine di band pressoché intercambiabili ma che vale comunque la pena ascoltare perché hanno, diciamo, il feeling giusto. Questa perversione intrinseca all’amore per uno dei filoni più reazionari e allo stesso tempo più aperti a contaminazioni dell’heavy metal è ulteriormente accentuata nelle sue derive estreme, ovvero tutta quella gente che prende quattro riff dagli Electric Wizard e ci basa sopra una carriera. Se certi gruppi ti prendono bene, ti prendono bene, punto. Pazienza se i riff sono sempre i quattro di cui sopra. Se sei un vero fattone terminale, si sente da come suoni. Prendete i Toner Low. O gli egregi BELZEBONG, che abbiamo visto di recente al Tube Cult Fest e ai quali abbiamo pure offerto fette di torta, per propiziare la buona riuscita dello show. Non ho assolutamente nulla di troppo acuto da scrivere su Greenferno, secondo full dei polacchi, forse più retrogrado e citazionista del primo: Goat Smoking Blues pare una jam sui giri di War Pigs tra amici cannabinomani troppo devastati anche solo per provare a ricordarsi il pezzo intero. E va bene così, ci mancherebbe.

Proseguiamo nel segno del disagio e dello sfasciume più profondi con gli splendidi WEEDEATER, che confermano di stare decisamente a pezzi con Goliathan, forse meno malsano e disturbante del precedente Jason… The Dragon ma altrettanto difficile da tirare fuori dallo stereo. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: la voce scorticata del drogatissimo Dave Collins, pezzi secchi e diretti, chitarre tra sludge sudista e revivalismo sabbathiano spinto, l’ormai consueto svarione country da vomito a prima mattina (Battered & fried). Può darsi che si siano disintossicati un pochino perché la scrittura è più immediata ed, ehm, lucida e i suoni si sono leggermente ammorbiditi ma i Weedeater riescono a coinvolgere e abbattere anche se non li si ascolta sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. E non è affatto scontato che continuino a distinguersi in cazzimma e attitudine in un circuito diventato così affollato. Nel genere, tra i dischi dell’anno.

Ahab
Gli AHAB mi sono sempre stati molto simpatici. L’immaginario marittimo, i concept album su Moby Dick, la Zattera della Medusa di Géricault in copertina, l’ossessione per i grossi cetacei e così via, un’estetica con la quale vado a nozze. Gli stessi motivi per i quali voglio bene a Megaptera e Giant Squid anche solo per il nome. All’inizio suonavano un funeral doom etereo e angosciante (e il debutto The Call of the Wretched Sea resta il loro lavoro che preferisco), poi col tempo si sono spostati sempre più sul post-hardcore, perdendo però in personalità e finendo per somigliare alle decine di seguaci validi ma anonimi di Cult of Luna e compagnia. The Boats of the Glen Carrig era il titolo di uno dei racconti di orrore marinaresco più famosi e agghiaccianti del grande William Hope Hodgson e già questo sulla carta dovrebbe essere sufficiente a fomentarmi. Purtroppo è anche il titolo del disco più scialbo e col pilota automatico inciso finora dai tedeschi, ai quali forse converrebbe tornare a buttarsi più sulla psichedelia allucinata di the Divinity of Oceans che fossilizzarsi sul power chord torpido ogni tot. I pezzi più suggestivi sono infatti quelli più d’atmosfera, come The weedmen. Se non li avevate mai ascoltati prima, The Boats of the Glen Carrig potrebbe pure piacervi moltissimo ma gli Ahab hanno dimostrato di poter fare ben di più.

Ringrazio il lettore che mi ha segnalato Aeons In Tectonic Interment, secondo album dei TYRANNY, come migliore mazzata funeral doom dell’anno. Mi sono perso qualcosa nei mesi recenti ma come candidatura è abbastanza plausibile. Suono cupo ed essenziale, quasi da black metal anni ’90, accordi dilatatissimi, voce cavernosa e derelitta per cinque incubi neri e inesorabili dalla durata media di dieci minuti, vicini ai territori intransigenti di Evoken ed Esoteric, per quanto i finlandesi dimostrino di essere figli dei loro tempi con una sottile e desolata ennui non distantissima dagli Agalloch, laddove l’approccio disperato è nichilista ricorda i leggendari connazionali Unholy. Produce la marcissima Dark Descent, l’etichetta che ha tirato fuori qualche mese fa un altro platter da podio doom 2015: il sorprendente esordio dei Crypt Sermon. Da avere.



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