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Musica da camera ardente #11

Creato il 22 aprile 2014 da Cicciorusso

È un po’ che non ci si affaccia da queste parti per vedere che succede di bello sul lato oscuro della Luna. Ma che volete, se siete assidui frequentatori di codesta pieve di Belzebù lo siete più per sentir parlare di robe tipo questa o quest’altra che per tenervi aggiornati sulle ultime novità in ambito neo-folk, darwave, elettronica, post-punk, piuttosto che EBM, piercing, frustini e bondage andando, no? Ciononostante quest’oggi ho voglia di sgrezzare i vostri palati viziosi con qualcosa di inconsueto.

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E dunque, cominciamo dal Bel Paese. Tra le cose in assoluto migliori che ho ascoltato negli ultimi mesi c’è Fate, primo full dei pesaresi SOVIET SOVIET. Il disco, uscito a fine 2013, sta avendo una risonanza enorme, in primis per meriti indiscussi ma anche per l’intelligente scelta della label, la newyorkese Felte, che in virtù di presentazioni organizzate all’estero, tour americani etc., ha contribuito a polverizzare i confini provinciali all’interno dei quali i tre marchigiani avrebbero rischiato immeritatamente di languire. È sempre un po’ uno smacco quando un prodotto ideato e fatto dietro casa tua viene confezionato e spedito col timbro postale di un altro paese però, dai, uscendo fuor di metafora, hanno fatto una bella mossa. Fate ti si schiaffa in testa da subito perché contiene sonorità care e familiari che è sempre un piacere ripercorrere quando, come in questo caso, lo spirito dell’epoca in cui tali suoni hanno visto i natali viene fuori con tanta spontaneità. Diciamo che il disco gira un po’ come se ci fosse un giovanissimo Robert Smith alle chitarre, ma sotto l’effetto di un potente psicostimolante a caso, il veloce e grezzo basso in sedicesimi di un Peter Hook d’annata e quell’adescatore di anime prave e perverse di Brian Molko al microfono, ma sessualmente meno equivoco del solito. Per dire, l’impatto per me è stato più o meno lo stesso che ho avuto dopo l’ascolto di Is This It e di Turn On the Bright Lights o, che so, di The Back Room. Il disco è ascoltabile su bandcamp, fatevi ‘sto piacere se vi volete bene. Immagino che dal vivo debbano essere una forza. A proposito, suoneranno pure di spalla ai riformatisi Slowdive, il 16 luglio, in quel di Padova.

Per certe band, non so se condividete, può benissimo valere la regola meglio non parlarne che parlarne male. In effetti parlar male dei LAIBACH è qualcosa che materialmente qui non riusciremo mai a fare, credo. Non credo, invece, che vi sia qualcuno al mondo che, avendoli ascoltati, possa definirsi, in coscienza, indifferente nei loro confronti. Nel senso che tutto quel pesante fardello di identità composto di note/ritmi/estetica/ideologia, che non può essere ignorato in alcun modo, scientemente segna profondamente, anzi determina, solo reazioni di tipo opposto in chi ascolta. A parte questo mio pensiero che appare anche abbastanza evidente, sul conto degli sloveni ho sentito e letto le più grandi cazzate mai dette su di una band.

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Del tipo che tutti si sentono in dovere di elargire dosi di scienza e conoscenza, dimostrando di aver letto con attenzione i bignamini vari su Wikipedia et similia, atteggiandosi a politologi del banco del pesce del mercato Trionfale perché, ovviamente, la cosa si presta bene. Tutto ciò mi sta profondamente sulle palle. Inciso a parte, l’album, ahimè, non tira come dovrebbe. Sebbene inizi con un brano che mette subito in chiaro le intenzioni bellicose di Milan & co, The Whistlebowers, e continui con altre tre gemme, tra cui Eat Liver! che impossibilita chiunque a frenare testa e piedi nel seguire il ritmo violento di una guerra incombente che mannaggia si preannuncia cruenta come è giusto che sia, perde letteralmente di cazzimma e tensione emotiva a causa di qualche riempitivo di troppo, che tendi pure a far finta che non esista, e certe ingenuità che non riesci proprio ad ignorare. Per carità, ai Laibach perdoni di tutto, pure se vengono a buttare le molotov a Portico d’Ottavia, figurati; resta il fatto che due terzi di Spectre rendono meno di quello che avrebbero potuto.Alcune idee restano bellissime e andrebbero sviluppate meglio in futuro; ascoltatevi See That My Grave Is Kept Clean ad esempio.

Torniamo a più miti e pacifici consigli con la dolce MONICA RICHARDS. La dolce Monica altri non è che la Musa dei Faith and the Muse, la quale, anche senza l’aiuto del fido William Faith, riesce a tirar fuori un dischetto veramente piacevole che alterna momenti eterei, quelli che più ti aspetteresti, a rimembranze folk ancestrali e celtiche, a passaggi più semplicemente dark pop, se così si possono definire, che ricordano un po’ gli ultimi lavori dei Love Spirals Downwards. Visto che i due è da un po’ che non fanno qualcosa insieme e nell’attesa che prendano il coraggio a quattro mani e si mettano nuovamente al lavoro, io vi consiglio l’ascolto di quest’ultimo lavoro solista, che si chiama Kindred. Se poi la pace interiore raggiunta non vi basta e aspirate alla beatitudine, allora dovete assolutamente andare a recuperare un doppio cd che risale a qualche annetto fa, Vera Causa, che raccoglie i più bei demo della band. Non vorrei mai essere ripetitivo dunque ho optato per la Richards al posto della piccola Marissa Nadler, ma non per questo non dovete sentirvi in dover di dedicare molto del vostro tempo a July che è semplicemente uno dei dischi più belli e commoventi mai fatti dalla fidanzatina ideale del redattore medio di Metal Skunk. Anzi, sai che c’è, ora ce ne godiamo un assaggio.

Un rapido accenno a Kim Larsen, musicista a noi molto caro. Ci smazziamo il capitolo neo-folk evitando di parlare del solito David Tibet e dei suoi Current 93 (il cui ultimo full, I Am the Last of All the Field That Fell A Channel, può definirsi finalmente un qualcosa di accettabile) ma rendendo onore al merito del doomster danese, autore dell’album di genere più bello degli ultimi, che so, dieci anni? L’album in questione era The Lone Descent e ne parlai qui. Doomster, perché il suo primo interesse non risiede nel folk dei suoi OF THE WAND & THE MOON bensì nell’opera occulta di una delle doom band più interessanti degli ultimi anni, i Saturnus, della quale è stato tra i fondatori e in cui ha militato fino al ’99. Nel mentre che attendiamo fiduciosi un bis di quel capolavoro di cui sopra, vi consiglio di dare un’ascoltata al lisergico Shall Love Fall From View?, ultimo EP uscito dalle mani del polistrumentista che tanto in bene mi fa sperare. Questo fatto capo ha.

Andando oltre, un rapido accenno al doom/jazz/ambient/dio-sa-cosa dei BOHREN & DER CLUB OF GORE, quei pazzi tedeschi che fanno un genere di musica che tra dieci anni sarò ancora qui a tentare di capire di che roba si tratti. Ho provato serie difficoltà nel mandar giù lavori tipo, ad esempio, Beiled (Ipecac), che vedeva alla voce lo stesso Patton, piuttosto che le schizofrenie di Black Earth, mentre ho trovato molto più accessibile e vicino alle mie corde il recente Piano Nights. Cupo, intimo, spirituale, alienante, funebre e triste in un modo definitivo, ma diamine che stile. Una roba che non se ne esce. Provatevi in questo tentativo di fine vita se avete voglia di dedicare a voi stessi un’ora di totale estraneità dalle cose terrene.

Finiamo in bellezza, fregandocene altamente del ritardo con cui se ne parla, facendo evaporare ogni residua gioia di vivere insieme ai LYCIA. Il filo che connette idealmente l’Oregon all’Arizona, terra d’origine dei due sposini VanPortfleet e Vanflower, è la darkwave, o dark-ambient che dir si voglia, che così bene e in copiose quantità viene spinta dalla Projekt Records, label di Portland che si fregia di nomi importantissimi della scena mondiale del dark qualcosa che ogni tanto non è inutile omaggiare ricordandone qualcuno, tipo gli immarcescibili Black Tape for a Blue Girl del guru Sam Rosenthal, o il genio di quella che qualche anno fa si sarebbe chiamata world music (in salsa goth) di Peter Ulrich il quale, ahimè, non fa più nulla da un pezzo, al folk amichevole del cubano Voltaire che da quando si è messo a fare dark-cabaret non riesco più a seguire con la stessa attenzione (ma che comunque pazientemente mi sta insegnando a suonare la chitarra), ai suoni eterei di Unto Ashes e This Ascension, allo shoegaze dei Mira e dell’affascinante, oltre che voce divina, Regina Sosinski, all’ambient di Steve Roach o degli italiani Alio Dio, alle malinconie medioevali dei Dark Sanctuary, per finire, o meglio, per cominciare (visto che i primi lavori risalgono agli anni ’80) proprio coi Lycia.

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Li avevo lasciati, devo ammetterlo, a Tripping Back Into the Broken Days e quindi a qualcosa come dodici anni fa. Quel disco, che soffriva pesantemente il confronto con full quali The Burning Circle and Then Dust o il glaciale Cold, aveva portato le sonorità di Mike e Tara verso un rock dalle tinte oscure per quanto, comunque, molto piacevole. Nel mezzo c’è stato un EP che, se non conoscete o non avete mai ascoltato nulla dei Lycia, posso anche esimermi dal consigliare. Oramai qualche mese fa, invece, tornano con un bellissimo Quiet Moments che intende ripartire paro paro dal succitato e, ancor oggi, insuperato Cold. Le atmosfere rarefattissime dei feed, degli echi e dei rumori indistinti che crescono in lontananza, sono le stesse identiche. La carica elettrica del gelo che il disco riesce a diffondere nell’aria è quella viva ed efficacissima di ormai quindici anni fa. Il tutto è ben coerente ma reso, purtroppo, imperfetto da un paio di fill che si potevano, tutto sommato, evitare. Ottimo davvero il lavoro di chitarre. Oggi i due si autoproducono ma mantengono i contatti col mondo Projekt e quindi con tutta quella bella comunità di personaggi disagiati che mirano a rendere questo mondo un posto ancora più triste in cui vivere. (Charles)



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