Un altro album non male di questo 2011 piuttosto promettente per la musica: Smart Flesh dei Low Anthem. E' il secondo lavoro della band del Rhode Island, quattro musicisti indie-freak poco interessati al rock contemporaneo e rivolti al blues e al folk campagnoli della tradizione americana, non quella oscena del Midwest e del South West, ma quella dei Monti Appalachi, universo di cui non so una mazza e di cui mi limito a percepire l'atmosfera affascinante da anni del proibizionismo, da bottiglie di acquavite con la tripla x, da Il guardiano del frutteto di McCarthy e pure da ambienti di un film uscito in questi giorni, Un gelido inverno, che è ambientato nel Missouri, e non sugli Appalachi, ma rimanda al medesimo mondo a cui sembrano rivolgersi i Low Anthem, rurare, antico e forse mai esistito. Il loro lavoro precedente, Oh My God, Charlie Darwin, già anticipava un lato dolce e lagnoso, ma aveva parecchi momenti blues e ballate rock beatamente grezze; in Smart Flesh, invece, prevale il versante melodico, con pezzi dolenti e bisbigliati, alcuni tristissimi ed altri travolgenti, e la voce che accompagna strumenti che stridono in lontananza, come di seghe piegate e fatte suonare da bastoni, tra i venti del tempo e la dimenticanza delle cose passate. E poi con un omaggio commosso a Leonard Cohen con un pezzo bellissimo che ricorda da vicino questo capolavoro, e forse un po' lo plagia. Non mettono allegria i Low Anthem, è certo. Hanno però una precisione musicale ammirevole, la forza di una ricerca storica che è l'equivalente di un lavoro cinematografico sui materiali d'archivio, un album color seppia, come di dagherrotipi ottocenteschi coperti di polvere.
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Un altro album non male di questo 2011 piuttosto promettente per la musica: Smart Flesh dei Low Anthem. E' il secondo lavoro della band del Rhode Island, quattro musicisti indie-freak poco interessati al rock contemporaneo e rivolti al blues e al folk campagnoli della tradizione americana, non quella oscena del Midwest e del South West, ma quella dei Monti Appalachi, universo di cui non so una mazza e di cui mi limito a percepire l'atmosfera affascinante da anni del proibizionismo, da bottiglie di acquavite con la tripla x, da Il guardiano del frutteto di McCarthy e pure da ambienti di un film uscito in questi giorni, Un gelido inverno, che è ambientato nel Missouri, e non sugli Appalachi, ma rimanda al medesimo mondo a cui sembrano rivolgersi i Low Anthem, rurare, antico e forse mai esistito. Il loro lavoro precedente, Oh My God, Charlie Darwin, già anticipava un lato dolce e lagnoso, ma aveva parecchi momenti blues e ballate rock beatamente grezze; in Smart Flesh, invece, prevale il versante melodico, con pezzi dolenti e bisbigliati, alcuni tristissimi ed altri travolgenti, e la voce che accompagna strumenti che stridono in lontananza, come di seghe piegate e fatte suonare da bastoni, tra i venti del tempo e la dimenticanza delle cose passate. E poi con un omaggio commosso a Leonard Cohen con un pezzo bellissimo che ricorda da vicino questo capolavoro, e forse un po' lo plagia. Non mettono allegria i Low Anthem, è certo. Hanno però una precisione musicale ammirevole, la forza di una ricerca storica che è l'equivalente di un lavoro cinematografico sui materiali d'archivio, un album color seppia, come di dagherrotipi ottocenteschi coperti di polvere.
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