La storia del musicista pugliese è piuttosto singolare: di primo acchito si potrebbe pensare alla solita menata del “nemo propheta in patria” (e non è del tutto infondata, va detto). Quando però si indagano le dinamiche stesse del suo percorso, allora tutto diventa più chiaro, e più complesso, in verità. Quello che mi interessa approfondire in questa sede, però, è la sua “materia viva”, figlia di una studiata propensione (comunque mai acritica) verso lidi musicali dalle mille palesi influenze. Con tutta probabilità uno come lui, multistrumentista e dai gusti particolarmente eterogenei, è epitome del musicista che fa quasi tutto da solo, che crea – a volte dal nulla, altre da lacerti di note provenienti dal passato – i suoi lavori, e che non fa mistero di pensare in grande, alludo al respiro internazionale dei suoi album. Va anche specificato che il cammino intrapreso è talmente caratterizzato e figlio delle proprie origini che è doveroso sottolineare quanto queste ultime abbiano potuto contare nell’insieme. Non dimentichiamo che una regione come la Puglia ha partorito diverse interessanti realtà culturali, basti menzionare etichette come la Minus Habens, la AFK Records e A Silent Place, senza dimenticare il ruolo dei conterranei Donato Epiro (con e senza i suoi Cannibal Movie) e Fabio Orsi (o un altro outsider come Claudio Milano), per non parlare di un festival importante per la regione come il barese Time Zones.
Affondo nella discografia
Dicevo della storia di Cosi: per uno che ha da poco ne ha compiuti trenta sono degni di nota i progressi fatti, partendo di certo da una buona base culturale e da evidente passione. Tornando alle passate frequentazioni, va annotato che negli anni nei quali ha cominciato a muovere i primi passi operavano i già citati Epiro e Orsi, oltre a Salvatore “Etre” Borrelli e Antonio Gallucci (Throuroof, Architeuthis Rex, Kapustin Yar), tutti diventati in un certo senso simbolo di una probabile nuova stagione della psichedelia di casa nostra, sempre aliena, in parte legata all’assolato bacino del Mediterraneo. E tutti provengono, non a caso, da regioni limitrofe, Puglia, Basilicata e Campania, anche se ciascuno di loro conserva certamente le proprie specificità, coi singoli percorsi che col passare del tempo si sono chiaramente modificati (ma è ovvio sia andata cosi).
Torniamo di nuovo al protagonista dell’articolo. Siamo poco dopo gli inizi del Duemila, Cosi ha già alle spalle anni di lezione col sassofono (adora Massimo Urbani, uno che bisognerebbe studiarsi/apprezzare per bene…). Bisogna arrivare però al 2006 per vedere la prima pubblicazione ufficiale, creata assieme al batterista e percussionista di area jazz Enzo Franchini, e uscita per la piccola Palustre Records (in sole cento copie), label “casalinga” fiera delle proprie peculiarità romagnole (da qualche parte dovrei ancora conservare una tessera fatta in occasione di un concerto tenutosi nel loro quartier generale di Chiesuola di Russi, con gente tipo Hiroshima Rocks Around, Lettera 22, Ottaven). “Conference Of The Acquarians”, poi rieditato dall’americana Last Visible Dog (in catalogo i nostri Renato Rinaldi e Stefano Pilia, e poi Birchville Cat Motel…) sa di “improvvisazione”, di “prove” prese da session che vanno verso una direzione difficilmente etichettabile, vedi l’assolo tribaloide di “Part Four” o lo sketch raga-blues di “Part Five”. Nel complesso trattasi di un’uscita che esprime tutta la propria estemporaneità ancora oggi (non mancano le affinità col noise, ad esempio in chiave più “harsh” in “Part Seven”) e che serve probabilmente ai due per mettere sul piatto una o più coordinate successivamente utili per intraprendere una strada più sicura, anche se per esempio poi di Franchini quasi non si sentirà più parlare (solo un altro lavoro con Cosi, in combutta con Makoto Kawabata e Neokarma Jooklo Sextet, e un’altra ancora con Thollem McDonas). Nell’anno successivo vedono la luce Immortal Attitudes per la Foxglove (Hush Arbors, Uton, Heavy Winged e Sindre Bjerga, tra i tanti in catalogo), che verrà saccheggiato successivamente in Collected Works, insieme ad alcuni dei pezzi presenti nei successivi The Three Faces Of Moongod per Ruralfaune (Robedoor, i nostri Throuroof ed (etre), poi Nicholas Szczepanik ed Expo ’70) in formato cd-r con solo tre pezzi, e And The Spiritual Committee, ancora per la statunitense Foxglove. Non va dimenticata pure una collaborazione fugace – un solo album all’attivo, “Pulga Loves You” per la Fire Museum Records – con la texana Vanessa Rossetto, a nome Pulga.
Il 2007 rimane anno più che prolifico, dato che vede la luce pure Käärmeenkääntopiiri (sempre per Fire Museum), lavoro a quattro mani col finlandese Uton (Jani Hirvonen), e qui l’atmosfera si fa decisamente più rarefatta. È chiaro che la matrice quasi metallica e al contempo “isolazionista” del suo sodale prende il sopravvento, e le take sono tutte piuttosto criptiche, con la melodia quasi assente, ma si intravede uno spiraglio nella sofferta “Hetken Aika (Kolmessa Maailmassa)”, mentre nella successiva “Kiertoilmakristalli” si mette in pratica una sorta di impianto blues stralunato e alieno, tra suoni che si accavallano e la base che rimane evocativa. Se la chiusura di “Yhdentekevä” è un lungo e muto sabba che stordisce, l’apertura di “Silmäympyräkolmio” è programmatica, in quanto summa di quello che si ascolta nell’intero album, quindi devo aggiungere poco, se non rimarcare il fatto che la collaborazione sembra riuscita, per quanto pervicacemente impenetrabile. A stretto giro di posta viene licenziata pure la serie Free Meditation Music, il volume uno per Students Of Decay (Natural Snow Buildings, Heavy Winged e Fabio Orsi), il secondo per la portoghese Ruby Red Editora e il terzo per la minuscola Oneiros Recordings. Andiamo con ordine: nella prima pubblicazione si fanno notare la marcetta jazzy di “Lovely Blue Cream”, l’aliena e deragliante “Orange Skies & Clouds” e un’estatica “Ending Of A Mystic Riot”. Nel secondo capitolo spiccano invece l’accattivante “Phunktooth” e le svisate ebbre di “Satanic Blues”. La trilogia si conclude con un album dove si fanno apprezzare la criptica “I Chumbani”, la nera e voodoo “I Wanna Be Black” e gli intermezzi rumorosi di “You Can’t Pretend To Be Someone”.
L’anno successivo si conferma sempre ricco di novità. Escono Collected Works per la statunitense Porter Records e una doppietta, sempre per l’americana Digitalis Recordings (Scott Tuma, Barn Owl, Tom Carter nel suo interessante roster): Heavy Electronic Pacific Loop e Heavy Electronic Pacific Rock. La prima è, come specificato nel titolo, una raccolta, sintesi del lavoro svolto fino a quel periodo, infatti il risultato è centrato in pieno. In particolare viene fuori tutta l’anima più jazzofila di Cosi, lo si evince dalla classica apertura della selvaggia “I Wanna Be Free” o dal vortice raga di “Harmonia Raag” e dalle involuzioni di “Making Love In Lhasa”. Se “Hoboland” è metronomica e kraut al punto giusto, ma un tantino pedissequa nel riproporre il modello dal quale trae ispirazione, “O Ngoko” (proveniente dal terzo volume Free Meditation Music) è brano trascinante dal sapore d’Africa (pure “Mozambico”, ma qui fa capolino un cut up sonoro che spiazza), mentre “Interstellar Trane” è omaggio scoperto all’autore di “A Love Supreme”. A conti fatti questo è il suo disco più diretto, proprio perché fa “selezione”, quello dal quale si può partire per avvicinarsi gradualmente alla sua figura. Torniamo invece alla doppietta degli “Heavy-works”: nel primo è presente un unico e lungo pezzo, omonimo, che prosegue verso quei lidi kraut e spirituali che si facevano notare già nelle uscite precedenti. Nel secondo gli stessi temi si sostanziano in maniera sempre articolata, e viva, mantenendo alta la temperatura di una materia già di per sé incandescente: la lunga “Study For Saxophone And Electronics (Dedicated To Roberto Donnini)” va subito dritta al dunque, con i consueti strati di suono, sax in particolare, e mood mediterraneo e intimamente “etnico”, e l’armonia insistente che caratterizza tutta la parte iniziale della composizione, mentre la sezione centrale procede più sorniona, per poi giungere a una placida conclusione sottilmente noise e pulviscolare (va sottolineata la dedica a Donnini, musicista toscano che negli Ottanta si produsse in una rara uscita discografica, Tunedless, per la Lynx Records, che licenziò anche dischi di Lino Capra Vaccina e Arturo Stalteri). Tutto l’album esprime un forte senso di spaesamento, a tratti sembra davvero di perdersi tra le radure di una località assolata (“A New Vipassana”), ma contribuiscono a questo smarrimento sensoriale la successiva prova più densa di chitarre di “Proud To Be Kraut / A Burning OM (Reprise)”, mentre la finale “The North Pole Vibes” è inaspettatamente calda, di quel tepore che solo in un tramonto d’estate potete godere. Con tutta probabilità questo rimane, a oggi, l’album migliore di Cosi, che da qui incomincia a eclissarsi per un periodo piuttosto lungo.
Il ritorno
Dopo qualche anno di evidente impasse, dovuta anche a numerosi viaggi, e al ritorno in Puglia, Cosi riprende il discorso interrotto con Heavy Electronic Pacific Rock, ma da una prospettiva cambiata, dalla possibilità cioè di re-interpretare pezzi altrui, per ovvia passione, ma anche per approcciarsi in maniera forse più graduale al sempre difficile ritorno in pista. Plays Popol Vuh dice molto a tal proposito (me ne occupai poco tempo fa) e devo solo aggiungere di quanto non fosse peregrina la possibilità di sentire dai suoi strumenti certe atmosfere che già in passato aveva studiato e riproposto alla sua maniera. Il tutto è sempre cangiante e atmosferico (l’apertura di “Aguirre (In B Majors) – Stars Aligning”, mentre “Hosianna Mantra” va giù pesante di chitarre e ritmiche sostenute). Se “Train Through Time” (con la voce di Florian Fricke) somiglia appunto a un treno che viaggia a mille nella Storia, “Vuh” invece torna alle origini del lavoro di Valerio, quel sax da spaesamento è ormai un vero e proprio trademark. Chiude “Affenstunde”, più criptica nel suo incedere poliritmico, e sintomatica della difficoltà di avvicinarsi a una materia storicamente affascinante quanto problematica da affrontare. Tra i musicisti coinvolti va menzionato in particolare Paul de Jong (The Books), e non è un caso che il disco assuma una forte connotazione data dal singolare mix d’atmosfere, unite ad un sentimento diciamo “metropolitano” (tipico proprio degli autori di “Thought For Food”).
Sempre lo scorso anno fa capolino un altro lavoro breve, Sounds For Vajont, al momento solo in formato digitale. In generale qui l’atmosfera è di “sospensione”, di riflessione su quella tragedia che ha segnato la Storia del secondo Novecento italiano. Si prova a musicare umori e tensioni attraverso una forma piuttosto seriosa e sacrale (“Vajont Naturelle”) o col breve stream of consciousness di “Mount Toc Raga”, ma non mancano momenti che si staccano dal mood generale, si ascolti la nenia di “Castrum De Spengenberg” o la quasi “morriconiana” “Longarone Blues (1’38” For Loren Connors)”, per non dire del divertito sketch di “Scanzonatissimo”.
Collaborazioni e uscite extra
Cosi ha frequentato spesso un altro appassionato di lidi kraut rock, ma da un’ottica più legata al linguaggio ambient e del drone tout court, il conterraneo Fabio Orsi (che da tempo vive a Berlino). Tra le collaborazioni ufficiali un paio (va precisato che sono a nome di Orsi & Cosi) piuttosto carbonare, una sempre per la Palustre Records a nome The Frozen Seasons Of Lysergia (2007), in formato cassetta, e l’altra per la neozelandese Root Don Lunie For Cash, lo split 7” Not Used / Not Seen (2007). Poi due lavori più corposi: We Could For Hours (2008), per la pugliese A Silent Place (My Cat Is An Alien, Aidan Baker, Jennifer Gentle) e Thoughts Melt In The Air (2009) per l’australiana Preservation. Di queste ultime due si può sottolineare la voglia di unire/fondere entrambe le specificità, da una parte la propensione a mostrare il lato più etereo di certa grammatica teutonica, dicevo propria di Orsi, che col sassofonista prova a mettere dei punti ritmici a lunghe composizioni dall’andamento lunare (i miraggi di “We Could For Hours: Part One”), la piovosa “Pink Sleep Blood”, o le tempeste emotive di “Cold Fusion (In Our Fingers)”. Chiude lo straniamento portato all’ennesima potenza di “We Could For Hours: Part Two”. “Thoughts…” invece è un’uscita ancora più impalpabile (e impenetrabile), in pratica trattasi di un unico atto diviso in quattro movimenti – in primis viene mutuata proprio la robotica “The Frozen Seasons Of Lysergia (Part One)” – che si pongono mesmerici e certamente unitari nell’insieme, mentre la lunga “Melt In The Air” mostra pulsazioni ritmiche lente ed inesorabili. Psichedelia cangiante e “fredda”, questa, chiaro che Orsi fa la parte del leone. Nelle note del disco, come fonte d’ispirazione si citano, non a caso, Brian Eno e certe sonorità della 4AD.
Per ora mi fermo qui, in attesa di nuove uscite future. È chiaro che il percorso svolto sino ad ora rimane di assoluto livello ed importanza. Attendiamo alla finestra.
Intervista a Valerio Cosi
A corredo dell’articolo vi presento una corposa intervista, utile ad inquadrare meglio la figura del musicista pugliese. Buona lettura.
Ciao Valerio. Incominciamo dalle ultime uscite. Intanto, perché ti sei fermato per un po’ di tempo? E come mai hai scelto di tornare in pista con due album piuttosto diversi tra loro, una rilettura dei pezzi dei Popol Vuh, e un ricordo/tributo legato alle vittime della tragedia del Vajont?
Mi sono fermato per un po’ di tempo perché ho fortemente creduto di non aver più nulla da dire per un determinato periodo. Ero stanco di esser continuamente in giro e di fare milioni di cose contemporaneamente, così tutto lo stress non fece altro che amplificare alcune mie sensazioni che ebbi in quel periodo e che letteralmente franarono su di me. Ho pensato che dopo Collected Works (una raccolta di quasi quattro anni di produzioni in solo) sarebbe stato utile rallentare. Non avrei voluto ripetere all’infinito le stesse idee o formule. In realtà (durante tutto il mio periodo di silenzio e standby) non sono mai stato fermo musicalmente nel mio studio, ho semplicemente re-investito molte delle mie risorse ed energie mentali in altre attività. Ho trovato il momento giusto per poter tornare a fare musica nel 2014 con Plays Popol Vuh e successivamente con Sounds For Vajont. Ci ho provato un anno prima con un album destinato ad uscire per un’importante label canadese e con eventuali “collaborazioni” (una con un mio amico d’infanzia, che come scelta personale è stata un autentico disastro sin dall’inizio) ma ho subito abbandonato in via definitiva quei progetti, poiché non rispecchiavano assolutamente ciò che avrei voluto dire in quel preciso momento, sebbene reputi ancora parte di quel materiale come qualcosa di valido e interessante.
Tempo fa qualcuno mi suggerì che sarebbe stato bello vedere me nel rendere omaggio a una band degli anni Settanta, e così ho fatto quella scelta, ho accontentato quella persona. Tra tutte queste band che mi balzavano in mente ho scelto i Popol Vuh, avrei potuto fare anche un Plays The Velvet Underground, che amo molto di più, in un modo viscerale, e via dicendo. Ho scelto i Vuh perché mi sembravano tra le cose più insolite di quegli anni, soprattutto mi affascinava questa loro imperturbabile calma espressiva, decisamente lontana da qualsiasi trend dell’epoca. Durante le registrazioni di la regola numero uno che mi sono auto-imposto è stata quella di deformare a mio piacimento il loro materiale, senza alcun timore reverenziale nei loro confronti, o paura di essere maltrattato da qualche fan della band. Mi piace molto giocare con le aspettative degli ascoltatori: in molti dopo aver acquistato l’lp hanno davvero creduto di avere a che fare con l’ennesimo album di cover, per poi scoprire di essere stati incredibilmente/piacevolmente beffati (!).
Sono allergico ai revisionismi e citazionismi di qualunque natura essi siano. Mi piace giocare sottilmente con il passato, ma il mio sguardo è rivolto solo e soltanto al presente, e soprattutto provo ad immaginare un po’ di futuro con la mia musica. Nel periodo in cui chiusi le sessioni di Plays Popol Vuh mi si è subito presentata l’occasione di collaborare con Gianpaolo Arena e Marina Caneve per il loro progetto multimediale che porta il nome di “Calamita/à”. Nelle loro intenzioni c’era quella di avere delle musiche scritte appositamente per commemorare i cinquant’anni della tragedia del Vajont. Accettai subito questa proposta e così iniziai a buttar giù alcune mie idee. Pensai da subito ad una soundtrack per una sorta di film immaginario sul Vajont, costruita su immagini che rievocavano questo senso di tragedia, ma soprattutto immagini di luoghi. Tutto quello che è venuto fuori l’ho sempre tenuto ben lontano da quel gusto melodrammatico un po’ di maniera (tipico di tante soundtrack di fiction nostrane) e lo volevo anche un po’ ortodosso nella tracklist. Ogni volta che guardavo questi film documentari sul Vajont o fiction sul tema, notavo subito come la qualità delle musiche che accompagnavano i filmati fosse davvero inappropriata o troppo poco ricercata. Ho sicuramente provato a dare una nuova linfa musicale a questo tema, in un modo che fosse esclusivamente mio e che non suonasse come nient’altro in circolazione.
Ora invece torniamo ai tuoi inizi. Da dove vieni musicalmente parlando, e perché hai scelto di suonare il sassofono e di avvicinarti all’elettronica? Parlaci anche dei tuoi studi musicali, se ne hai fatti.
Suono da quando avevo nove anni, il mio strumento iniziale è stato la batteria. Mio fratello credeva che io fossi naturalmente portato per tenere il tempo con le bacchette, così i miei pensarono di regalarmi una Tama Swingstar per la mia prima comunione. La mia prima band l’ho avuta proprio a nove anni, in questo gruppo c’era anche mio fratello Dario alle tastiere, e nel ‘94 suonai con loro dal vivo davanti a centinaia di persone nel mio paese. Divenni una specie di piccolo fenomeno da baraccone in quella circostanza, e per me fu molto emozionante.
Ho trascorso un’intera infanzia attaccato al giradischi dei miei, ascoltando quasi tutto quello che mi capitava sotto tiro, era il mio giocattolo preferito. Mi piaceva molto riascoltare gli album prog-rock, mio fratello ne comprava diversi, e una volta al mese andavo dal barbiere del mio paese solo per farmeli prestare. Verso i dodici/tredici anni m’innamorai follemente della musica di Prince e David Bowie; Prince è stato il mio primo grande idolo, quand’ero alle medie (e lo adoro infinitamente tuttora). Sempre in quel periodo, nel mio tempo libero, compravo delle C-60 (le trovavo dal tabaccaio) e mi divertivo a registrare collage di audio in casa (l’audio che ne veniva fuori era un mix di spezzoni di trasmissioni radiofoniche, vinili che avevo…). Con una combinazione di tasti premuti, avevo persino imparato a rallentare il nastro in fase di registrazione, ottenendo dei suoni molto simili a dei drone o stretched audio. Subito dopo le medie, avviai il mio percorso di studi con il sassofono e contemporaneamente fui introdotto all’utilizzo dell’audio software Soundforge da parte di un amico. Dotato del mio sax, pc di casa e una tastiera Korg (nel ’98 circa) iniziai a sperimentare sui suoni allo stesso modo in cui iniziai a registrare le mie prime cassettine per gioco. Divenne il mio hobby primario quando finivo di studiare, quello che ne veniva fuori era una serie infinita di esperimenti piuttosto rozzi ma allo stesso tempo molto utili per me. Quando frequentavo il Liceo Artistico ho avuto anche la fortuna di avere un bidello che distribuiva cataloghi della sua collezione di lp ad alcuni ragazzi della scuola: la roba che c’era lì sopra era impressionante, e la mia curiosità fu totale. Nel giro di qualche mese mi ritrovai con diverse decine di nastri di Throbbing Gristle, Velvet Underground, Can, Chrome e new wave assortita nel mio mangianastri. Quella musica era profondamente destabilizzante, fu uno shock per me in tutti i sensi. Inoltre, la cosa che più mi sorprese all’epoca era che quasi nessuno dei miei coetanei/conterranei provasse il benché minimo interesse per queste band. Ero cosciente del fatto che quella musica fosse troppo speciale e che mi stesse profondamente cambiando. Tutto il resto o seguito di questa storia te lo lascio un po’ immaginare.
Sei passato dalla nostra Palustre Records a numerose etichette straniere, come Last Visible Dog, Foxglove, Ruralfaune, Porter Records, Digitalis Recordings, fino a pubblicare in pratica da solo i tuoi dischi per la Dreamsheep. Come mai quest’ultima scelta? È soltanto per una questione di “autonomia”, o c’è dell’altro?
Dreamsheep mi consente di lavorare su qualcosa in completa autonomia, ed è anche un modo per tirare fuori qualcosa di mio nei tempi che desidero. Dreamsheep prese vita inizialmente per promuovere il lavoro degli altri, ma dopo la lunga pausa decisi di riconvertirla come una base per lanciare alcuni progetti a mio nome. Continuerò a lavorare con altre label in futuro, senza mai rinunciare alla mia esclusiva “imprint” personale.
Parlami delle varie esperienze che hai avuto in Italia e all’estero. Raccontami magari di particolari episodi avvenuti, ma soprattutto dimmi se ci sono state delle differenze tra qui e oltreconfine. Parlo di approccio musicale da parte degli artisti, dei rapporti con i singoli musicisti, situazioni live…
Positivi o negativi? Avrei un sacco di storie e aneddoti memorabili. Di iper-positivo avrò sempre in mente i miei fan (non avrei immaginato di averne all’epoca, sì, quelli che macinavano chilometri su chilometri per vedere un mio live), le storielle d’amore che sbocciavano mentre ero in giro, i musicisti che incontravo, un inappagabile senso di libertà derivante dallo spostarsi o essere continuamente in viaggio. Dal punto di vista più professionale/personale, al di là dei concerti, potrei produrti un piccolo elenco (una cosa che mi tocca fare in questo caso): il giorno in cui fui ufficialmente invitato dai Caribou per aprire il loro tour in Europa, le indimenticabili serate trascorse con Thurston Moore dei Sonic Youth, il fratello e la sua incredibile famiglia durante il mio periodo trascorso tra New York City, il Massachusetts e il Connecticut. Lo storico producer Brian Eno che acquistò il mio album in un negozio di dischi londinese complimentandosi con me e la Porter Records per la qualità della musica; l’aver conosciuto e stretto rapporti di amicizia bellissimi con splendidi musicisti, tra i quali Phill Niblock, i Gala Drop, Steve Noble, Alan Licht, Burton Greene e Alan Silva mentre ero in giro per l’Europa. Potrei andare avanti così ricordando cose davvero particolari della mia vita musicale, ma non cerco mai di soffermarmi lì, perché trovo che ci si culli sempre un po’ troppo in quei casi.
Di negativo c’è che nel 2009, quando decisi di “allontanarmi dai riflettori”, rifiutai di realizzare un album per la storica ESP-Disk su invito del loro manager Adam Downey (la stessa storica label che diede alle stampe i classici di Albert Ayler, Ornette Coleman, The Fugs, Sun Ra, Burton Greene, Patty Waters, ecc.)… Mi dispiacque molto di non esser stato più in grado di dar vita a quel lavoro, sebbene molta gente mi abbia vivamente sconsigliato tempo fa di firmare un contratto per loro. Avevo sempre sognato di vedere qualcosa di mio su quel meraviglioso catalogo, e spero un giorno di poter recuperare l’occasione perduta.
Ci sono differenze sostanziali tra l’Italia e l’estero: fuori dal nostro Paese il pubblico è molto più attento e ricettivo, c’è molta più curiosità e voglia di mettersi alla prova e in discussione. Non credo che il pubblico italiano sia completamente indifferente all’underground, abbiamo anche noi festival ed eventi nella penisola che ce la mettono tutta per diffondere qualcosa di nuovo ed insolito: va solo stimolato ed educato, perché qui da noi persiste una mancanza di educazione musicale disarmante derivante da talent-show, MTV e decenni di cantautorato nazional-popolare. Continuiamo a prestare attenzione e a tessere le lodi di musicisti che trovano un riscontro solo nello Stivale e che fuori annaspano del tutto, sono troppo autoreferenziali e poco “universali” per potersi realmente confrontare con il resto del mondo. Dovremmo seriamente invertire la rotta e pensare bene a questo, ne trarremmo solo un notevole vantaggio culturale, economico e sociale. Nel resto d’Europa c’è un cantautorato emergente infinitamente più solido ed esportabile del nostro, persino in Francia e Spagna che hanno una lingua più rassomigliante alla nostra. Tutto ciò dovrebbe seriamente far riflettere molta gente che ha scambiato la musica per una nuova leva militare.
Ho sempre avuto un feeling quasi perfetto con i musicisti all’estero, ricordo davvero pochi screzi con alcuni di loro. I colleghi italiani con i quali ho avuto la fortuna di collaborare mi hanno quasi sempre fatto trovare a mio agio.
Come sono nate in particolare le collaborazioni con Fabio Orsi ed i My Cat Is An Alien?
In un modo molto spontaneo e veloce: con Orsi mi sono limitato a creare le mie classiche impalcature sonore sui drone che mi faceva ascoltare; lui dopo si occupò del missaggio finale e del mastering dei due album. I My Cat Is An Alien realizzarono uno split 7’’ con me in davvero in poco tempo, hanno lavorato con me mostrando enorme interesse e disponibilità sin da subito.
Il processo compositivo è rimasto sempre lo stesso nel tempo?
No, è cambiato, direi. I miei brani sono ancora più strutturati e intricati, c’è un’impalcatura davvero particolare dietro le mie ultime cose. Credo sia stato un processo naturale dopo dieci anni. Molta gente crede che la mia musica sia impro, drone, bla bla… niente di più fuorviante e sbagliato! Nulla è lasciato al caso ed è infinitamente ragionata e strutturata nel più piccolo dei dettagli. Hai mai ascoltato la musica dei Books? Bene, la mia musica è sempre stata qualcosa di incredibilmente simile nelle intenzioni.
A un certo punto hai deciso di tornare in Puglia. Com’è stato l’impatto con questa realtà? È cambiato anche il tuo modo di pensare la musica stessa?
La Puglia è per me una soluzione pro-tempore o base logistica, ho uno studio qui che occupa molto spazio e spesso mi trovo a spostarmi o stare in giro per la mia musica. Sono abituato alla vita in questi posti, e l’assenza di stimoli spesso può essere molto utile, almeno nel mio caso. È verissimo anche l’inverso, ma se ci penso la maggior parte dei miei lavori li ho realizzati in un minuscolo paese del Sud Italia, e mi ritrovo con un immensa forza d’animo, caparbietà e spirito di adattabilità. Non credo che sia stata la Puglia a cambiare me ed il mio modo di fare musica, credo semplicemente che io sia cambiato dentro e abbia nuove idee o suoni in testa.
Ascolti tante cose, vero? E sei anche uno che acquista molti album? Immagino che jazz e kraut rock ti abbiano influenzato…
Sì, acquisto moltissimi dischi. Sono sempre molto attento a ciò che mi accade attorno, credo sia un errore fatale non accorgersi di ciò che il mondo (underground o meno) produce. Sono sempre stato un individuo eccessivamente curioso ed un onnivoro musicale. Il jazz ed il krautrock sono generi che mi hanno appassionato molto per diverso tempo, ma non ho mai voluto abusare di stilemi o linguaggi, ho sempre cercato di creare delle miscele uniche nel tempo, che non somigliassero a molte altre cose in circolazione.
E mi dici la tua sulla cosiddetta scena chiamata “italian occult psychedelia”? Cosa pensi a tal proposito? Lascerà secondo te una scia o rimarrà solo un qualcosa di circoscritto a un breve periodo storico?
Credo che ci siano delle analogie con il fenomeno della “New Weird America” nello scorso decennio, ma con qualche sostanziale differenza. Nel caso americano, ho visto orde di musicisti e cd-r con jam inconcludenti che infatti hanno solo intasato terribilmente il mercato dell’epoca in cambio di una qualche visibilità, lasciando poco spazio a determinati artisti con un focus molto definito. Ora che ci penso, molti musicisti di quella corrente si sono ritirati o addirittura hanno cambiato completamente identità in un modo camaleontico. Li ho sempre visti con curiosità ma non m’interessava assolutamente essere associato ad un collettivo di persone, sono molto individualista, ed ho sempre visto il mio percorso come un qualcosa di unico ed alieno rispetto a quelle logiche.
Al contrario della New Weird America, l’Italian Occult Psychedelia ha meno dispersività ed un focus più definito nella stragrande maggioranza dei casi, più un piccolo festival retrospettivo a cadenza annuale. Trovo che alcune band di questa Italian Occult Psychedelia abbiano un sound molto valido, come ad esempio i Cannibal Movie (sono cresciuti moltissimo negli ultimi tempi, soprattutto live) e poi ci sono i Mamuthones, Father Murphy, l’industrial di Mai Mai Mai, gli Heroin In Tahiti, che si sono lentamente imposti ognuno con le proprie peculiarità a sé stanti.
Una piccola critica personale? Mi piacerebbe che si giocasse sempre meno con le citazioni (non è da tutti giocare con le citazioni ed uscirne fuori indenni), non vorrei ascoltare troppo spesso le scale bizantine o arabe con l’intervallo di semitono fra I/II o V/VI perché non fanno assolutamente per me… Al di là di questo, credo che si possa pienamente sperare in una lunghissima vita fatta di riscontri, ma soprattutto crescita individuale e musicale per questi musicisti.
Cosa segui in modo particolare del nostro underground?
Ultimamente mi ha colpito molto un disco dei milanesi Heith su Haunter Records che si chiama Silence Will Expire, ha un sound unico e particolare. Poi Caterina Barbieri, lei è una musicista molto attenta e versatile, e sono sicuro che farà parlare molto di sé in futuro. Gli altri dischi italiani che hanno destato un vivo interesse in me, e che ho riascoltato spesso, sono stati quelli di C’Mon Tigre, il nuovo album di Andrea Belfi, Ballyturk di Teho Teardo, e i Ninos Du Brasil su Hospital Productions.
Dimmi quali sono i tuoi progetti. Ascolteremo un nuovo album con pezzi inediti?
Sì, è in arrivo un nuovo album in solo ed in futuro ci sono anche delle collaborazioni in vista, una è proprio con Paul de Jong dei Books (il quale già suona nel mio lp Plays Popol Vuh). Ora però mi tocca restare in silenzio!
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