“Per sempre la mia anima guarderà verso nord”
Tra i più tartassati dalla Seconda Guerra Mondiale, quelli che le presero da tutti i lati furono proprio i polacchi. Tra il ’39 e il ’41 tedeschi e russi, a più riprese, facevano brandelli di quella gente col fine ultimo di cancellarne totalmente l’identità, a prescindere dall’etnia e dalla fede religiosa. Al pensiero della sequela di deportazioni, fosse, sparizioni, espulsioni, schiavitù, gulag e applicazioni varie dei criteri della biogeografia tedesca da una parte e della diabolica freddezza calcolatrice di Stalin dall’altra, non mi capacito di come un polacco possa definirsi nazista o comunista. Che poi non è ancora chiaro chi dei due abbia fatto più danni lì giù. Ma non voglio aprire un dibattito storico, per quanto interessante. Da parte sua, il germe del nazismo nel black metal viene fuori lentamente, in modo quasi naturale, nei primi anni ’90 in Europa ma rimane tutt’ora una specificità relativamente poco diffusa, relegata principalmente alla dimensione underground. Tra i capostipiti più o meno illustri di questa tendenza ritroviamo, non fosse altro che per motivi meramente cronologici, i polacchi Graveland. Con l’appassionato disprezzo nei confronti della religione cristiano-cattolica e l’attrazione verso il misticismo nordico, con una caterva di altri -ismi quali l’odinismo, il wotanismo, l’occultismo, il paganesimo, l’antisemitismo, il filo-militarismo, tutte tendenze più o meno condivise dalla più seriosa estetica nazista, abbiamo completato l’elenco dei riferimenti che, tra il serio e il faceto, danno vita a questo sotto-filone del black metal. Dimenticandosi colpevolmente della più divertente e tragicomicamente costruttiva weltanschauung nazi fatta di spillette brilluccicose e palandrane nere di pelle, oltre che di tutto quel porno-romanticismo fatto di segni dei frustini sulle teutoniche chiappette e della più leggiadra gayness travestita da machismo cameratesco da pacche sulle spalle, il NSBM, che potenzialmente avrebbe potuto rappresentare lo stadio terminale e senza ritorno della musica del demonio, si limita a poche distinzioni che riguardano più il layout e i testi stupidotti, che non fanno né ridere né piangere, concentrandosi più sulle gesta dei “Gods of the ancient (aryan) Europe” che sull’ambito strettamente musicale, il quale risulta spesso essere un’accozzaglia pressoché involuta degli stilemi classici del bm norvegese, con poche e rare eccezioni che non ci riguardano per ora.
Chissà se gli avi di Rob Darken facevano già parte di quella minoranza etnica tedesca presente in Polonia prima che la macchina hitleriana si mettesse in moto o se vi furono spediti a germanizzare quei territori e dare corpo agli obiettivi del Lebensraum e del Generalplan Ost. In quel caso la sua passione per l’Adolfo avrebbe pure un senso. Resta il fatto che il fondatore, nonché leader storico e tuttofare, dei Graveland non ha mai ammesso pubblicamente di essere un filonazista tout-court, benché la cosa sia abbastanza lapalissiana. Purtroppo per noi, dopo aver scritto amenità giovanili tipo Gods! Give me the power/ To destroy the christian gods/ Give me the rule over the fire/ To burn the houses of god o tipo Yesterday we burnt two villages/ we killed women and children/ heads out of the bodies of priests/ we impaled on our wooden socle, il buon Darken ha pure smesso di pubblicare i testi nei booklet per evitare altre rogne (perché alcuni dei suoi primi lavori furono iscritti in non so quale black list tedesca di testi che offendono il Cristo) e quindi non possiamo più neanche condividere la gioia di interpretarli in chiave esoterica.A questo punto non ci interessa manco più, almeno da un punto di vista puramente sociologico, visto che i Graveland di oggi, ma sono tanti anni ormai, hanno dismesso il totenkopf dalla giacchetta e tolto i panni dei cattivoni elitaristi per dedicarsi ad un viking black metal di ispirazione bathoriana, epico, totalmente anacronistico ma almeno più credibile. È da questo momento, per quanto mi riguarda, che cominciano a diventare interessanti. Oddio, interessanti è un parolone. Diciamo pure che i primissimi dischi sono osceni, che di porcate hanno continuato a produrne anche in seguito e che se non avete mai ascoltato un disco dei Graveland non sta scritto che dobbiate vergognarvene. Però, se vi pregiate di definirvi esperti di black metal e non conoscete i Graveland, forse vi state dando un po’ di arie, ecco. A prescindere da tutto, era giunto il momento opportuno per parlarne, considerando che loro sono in giro da una vita, che qualche dischetto caruccio, anche di recente, Darken lo ha fatto (vedi la pregevole riscrittura totale di Memory and Destiny del 2002 col titolo in lingua madre Pamięć i Przeznaczenie), visto pure che su questo blog abbiamo scritto sproloqui interminabili su gruppi molto più prescindibili (tipo quello che viene dopo), che Thunderbolts of the Gods non è affatto male e che, infine, è pubblicato dalla mitica No Colours Records. Detto questo, spero di avervi incuriosito almeno un po’ perché sull’album in sé non c’è nulla da dire e poi adesso deve partire il turbo-pippone sui Bucovina.
Dei Bucovina parlai in tempi non sospetti, elogiandone le attitudini fortemente folk, fedeli alle tradizioni delle propria terra che a noi, resi edotti da un’attenzione quasi spasmodica (ma giustificatissima, credetemi) nei confronti di tutto quello che dalla Romania sta venendo fuori, sembra sia pronta a dare frutti maturi e più buoni che mai, cresciuti forse un po’ più lentamente rispetto ad altri paesi europei e mitteleuropei ma comunque meritevoli di tutta l’attesa e la pazienza profuse. Abbiamo imparato che la Romania è fatta di tradizioni antichissime, di ritmi e melodie ancestrali, semplici perché pure e popolari nel senso più alto della parola. Abbiamo visto che esistono realtà che stanno crescendo, che hanno messo il naso fuori dai confini nazionali e hanno ottenuto riconoscimenti, mai plebiscitari ma quasi. Nel sound dei Bucovina si sentiva che c’era ancora qualcosa di grezzo e inespresso, che potenzialmente avevano ancora tutto da dire, che avevano bisogno di tempo ed esperienza per trovare uno stile più personale, non per forza chino sul solco dell’efficace, ma oramai edulcorato, folk black metal dei loro più famosi conterranei. Non hanno inventato nulla di nuovo, sia ben chiaro, ma con questo secondo album i Bucovina hanno finalmente tirato fuori la cazzimma del classico metallaro defender, quello che puzza di sudore lontano un miglio e che dice pane al pane e vino al vino. A questi semplici ed essenziali ingredienti di cui è composto Sub Stele, ingredienti che per comodità chiameremo Running Wild e Grave Digger, si aggiungono spezie tradizionali, che potremmo pure chiamare Mythotin o, in chiave più contemporanea, Falconer. Il tutto è stato impastato e steso sotto la supervisione di sua maestà Dan Swanö. Sperando di avervi incuriosito di nuovo, vi lascio segnalando che al momento il disco è ascoltabile gratuitamente qui ma esortandovi, come sempre facciamo per gli esordienti e i meritevoli, a comprarlo, se vi piace. (Charles)