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Musica di un certo livello #16: THE PRIVATEER, CODE, EREB ALTOR, HEATHEN FORAY

Creato il 22 gennaio 2014 da Cicciorusso

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Ahoy crew! E vai con la raccolta delle rimanenze sulle quali, per un motivo o per l’altro, il qui scrivente polentone non ha espresso la sua a tempo debito. Ma visto che quello di tempo debito diventa un concetto molto vago allorquando il debito di tempo diventa costante della tua quotidianità, la smetto di cincischiare e mi pregio di elargirvi codesta dose di indispensabili opinioni senza le quali facevate fatica a campare, ammettetelo.

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THE PRIVATEER – Monolith (Trollzorn Records)

Tra i più validi esponenti della cordata piratesca del 2013 (a fronte di una non proprio entusiasmante, sebbene manco brutta, uscita discografica dei Running Wild) mi sento di citare i The Privateer. I bucanieri teteschi traggono il loro nome dallo stupendo brano di quell’inarrivabile album che fu Black Hand Inn e lo fanno portando rispetto ai grandissimi capostipiti della corrente corsara. Di per sé il disco si fa voler bene ma non è che convinca proprio tutto tutto dall’inizio alla fine perché, stilisticamente parlando, bisogna dirlo subito, più che i succitati conterranei crucchi si può sentire dentro una dicotomia tra il folk black, con quei tipici passaggi melodici, arpeggini carucci e ariosi tromboni, che poco hanno a che fare col tema lirico in oggetto, e le fasi più power e classic heavy metal (con tanto di coretti alla DeFeis) che, in questo caso, sono quelle che preferisco. I pirati rappresentano tutto ciò che avremmo voluto essere. Per dire, di recente, in un ben noto parco europeo a tema, ho potuto constatare che l’attrazione migliore non era il mega razzo che ti sparava a testa in giù a tremila all’ora ma la paciosa barchetta che ti scarrozzava tra i più consueti scenari da filibustieri. Ed è stato bellissimo vedere quanto si divertissero i bambini, che già così piccoli riuscivano a cogliere l’essenza festaiola dell’avventurosa vita piratesca: alcol, sparatorie e baldracche. Sono sicuro che quei piccini verranno su proprio bene.

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CODE – Augur Nox (Agonia Records)

Anticipavo nella play che trattasi di scoperta dell’ultimo secondo. Per quanto sia restio, per motivi legati alla prudenza del malato terminale da classifiche, a ficcare in graduatoria un disco che non ha avuto ancora il giusto tempo di sedimentazione, non debbo pentirmi della scelta fatta. Gli inglesi Code, come si diceva, sembrano voler ricalcare l’opera di Borknagar ed Enslaved, utilizzando quella caratteristica, genericamente definita progressive, di composizione di musiche e linee vocali che hanno nella linearità il loro più lontano termine di paragone e che l’uomo della strada tende a definire, ancora più genericamente, ‘colte’. Secondo me, il lavoro che fanno il batterista e il cantante nel black metal di ispirazione progressive è importantissimo e dà il carattere e lo stile a tutto il resto. In passato (qui siamo al terzo disco) si sono avvalsi, alle pelli, di turnisti illustri, gente che ha visto il bel mondo, e pare avessero anche l’intenzione di inserire ICS Vortex nella line-up (ne sarei stato ancora più contento perché lui è un po’ un mio cantante feticcio). I Code di oggi, a bocce ferme e anche ad un ascolto manco tanto approfondito, ti danno l’impressione di funzionare come una macchina. Avanti così.

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EREB ALTOR – Fire Meets Ice (Cyclone Empire)

Per la categoria ‘vorrei ma non posso’ ci tocca fare un salto nella Svezia degli Ereb Altor. Non so immaginare quanti di voi li conoscano (magari conoscete meglio gli Isole) e quanto possiate condividere quest’opinione ma a me, sarà il nome altisonante che si sono dati, sarà la provenienza geografica mista all’estetica vichinga, questi qui hanno sempre incuriosito parecchio e ho sempre puntato un sacco di monetine su di loro, per rimanere, spesso, con un po’ d’amaro in bocca. Meno trucidi (e cupi) rispetto al recentissimo passato e di nuovo inginocchiati all’altare di Quorthon, gli Ereb Altor sono a un pelo dal diventare la cover band ufficiale dei Bathory. In questo blog ne hanno parlato più o meno tutti, il che vuol dire solo una cosa, che il summenzionato Quorthon manca tantissimo a tutti noi e se ogni tanto qualcuno sente il bisogno di ricordarcelo non possiamo o dobbiamo tirargli le uova marce addosso. Come al solito, medio-alta la prestazione degli Ereb Altor, nessuna idea nuova ma tanta, tanta e tutto sommato ben accetta, fedeltà.

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HEATHEN FORAY – Inner Force (autoprodotto)

Continuiamo, a ‘sto punto, seguendo l’ordine di come mi appaiono sul lettore mp3, con questi vichinghi austriaci che spaccheranno i vostri bei culetti verginelli. Disco tosto e semplice nella struttura. Immediato ma con qualche ingenuità di troppo, considerato che stanno al terzo album. Ciò nonostante mi è piaciuto e sarei curioso di sentirli dal vivo perché in certi passaggi ti fanno fare un bel su e giù con la testa. Hanno tratto il nome da un pezzo dei Falkenbach, quindi oltre che ripromettermi di recuperare i loro vecchi lavori, non saprei cosa fare di più per dimostrare di essere votato alla loro causa. Sì, dal vivo devono spaccare. (Charles)

 



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