Magazine Cultura
Avviso ai naviganti, come suggerisce il titolo è il mio meglio dell'anno in fatto di rock, non "il meglio del 2013", questo spetterebbe ad un team di giornalisti di una rivista (e per questo rimando al numero di gennaio del Buscadero o a qualsivoglia altra rivista e web musicale) oppure ad una comunità di ascoltatori, appassionati e quant'altro. Per cui questo scritto racchiude solo ciò che mi è piaciuto, tra quanto ho potuto ascoltare. Certo la nascita di Spotify ha semplificato molto le cose e fatto risparmiare i consumatori di supporti musicali solidi, oggi si può ascoltarsi un disco nuovo o vecchio che sia, non tutti comunque, e poi decidere di comprarlo evitando di spendere i soldi per nulla, dando retta a recensioni spesso fuorvianti o eccessive o semplicemente non sintonizzate sui propri gusti. Cercherò di non ripetere quello scritto a proposito del 2011 e del 2012 ma una considerazione mi tocca, purtroppo, farla : si può dire e scrivere ciò che si vuole, si può tirare in ballo l'età, le emozioni legate agli anni giovanili, le aspettative, gli amori, il fatto che nel rock n'roll è già stato fatto tutto, la tecnologia e tutto quanto volete, ma è incontrovertibile che nei dischi del passato c'era più creatività, ispirazione, spontaneità, genio. Basta leggersi una delle tante compilation che molti si divertono a mettere su facebook o in qualche blog riguardo alle uscite discografiche di una determinata annata degli anni settanta e ottanta, ma anche novanta, per non parlare dei sessanta, con le relative copertine e accorgersi che un anno a caso di quelle decadi oscura completamente, a livello di qualità e creatività, qualsiasi annata recente, non oso dire che la ridicolizza ma rende il paragone impietoso, come confrontare Berlinguer con Renzi. Detto questo ognuno è libero di pensarla come vuole e di trarre le proprie conseguenze, la mia è che si vendono meno dischi perché oltre alle infinite proposte della rete, i dischi sono meno belli e così, a parte il capitolo ristampe e anche qui ci sarebbe da fare dei distinguo, uno con la musica può contenere le spese, se non ci fossero i concerti, vera spada di Damocle sulle nostre tasche, i cui biglietti sono arrivati a livello di stipendio da parlamentari o manager, visto che per Dylan, uno che passa in concerto un anno sì ed un altro si, lo scorso novembre a Milano bisognava sborsare 90 euro. Dicono, ma era il Teatro degli Arcimboldi, si sentiva bene e si stava comodi; vabbè, che vuol dire, quello è il minimo che deve offrire un luogo adibito alla musica, se tali luoghi non esistono in Italia non è mica colpa dell'ascoltatore che deve pagare l'equivalente di due giorni e mezzo di lavoro (se qualcuno il lavoro ce lo ha ancora) per vedersi l'artista di suo gradimento. L'alternativa non è prezzi contenuti, luoghi inadatti e scomodi e acustica di merda, anche se ancora oggi da noi capita così, ad esempio i Gov't Mule alle Officine Ansaldo di Milano. All'estero i prezzi sono più alti mediamente (ma non sempre, mi ricordo un paio di anni fa per Clapton/ Winwood Band alla Royal Albert Hall ho speso 55 sterline, quindi........), ma sono più alti anche gli stipendi e l'acustica è sempre all'altezza della situazione, anche in un club o in un locale di periferia. L'impianto audio è la prima cosa che deve curare un gestore, grande o piccolo che sia il locale. Rispetto per gli artisti e per il pubblico.Comunque la musica, oggi, in rete non costa praticamente nulla e si accede ad una quantità impressionante di musica a costo zero, ma, o avete delle ottime casse collegate al computer oppure vi accontentate di una qualità audio svilita. In entrambi i casi molte frequenze sono scomparse e le compressioni snaturano l'uscita e quindi l'ascolto. Saggio è quanto scrive, a proposito, Neil Young nella sua divertente biografia, Il Sogno di un Hippie, consigliato. Per cui lunga vita al CD e al vinile, ritornato di moda.
Vado in ordine sparso, complice un Barbera del 2011, tredici gradi, non barricato, azienda Marchisio, zona Castellinaldo, provincia di Cuneo, imbottigliato dal sottoscritto. La caduta discografica è sotto gli occhi di tutti (o magari solo dei miei e di tanti amici che conosco) ma, al contrario, i concerti rock vivono un momento di gloria e sono tanti quelli super, un segno dei tempi e del mercato. Da anni i musicisti hanno spostato gli investimenti dalla sala di registrazione ai tour , pubblicando dischi con l' unico pretesto di allestire nuovi tour, si vendono meno dischi ma capita sempre più spesso che per i grandi nomi (vedasi recentemente per Nick Cave) se non ci si muove per tempo diventa poi arduo trovare un biglietto disponibile, anche nelle grandi arene e negli stadi. Springsteen docet. In quanto a concerti visti, entusiasmanti sono stati Neil Young & Crazy Horse il 14 luglio a Locarno (vedi blog), concerto dell'anno per il sottoscritto, i Black Crowes all'Alcatraz di Milano (vedi blog), Jonathan Wilson al Carroponte di Sesto San Giovanni (vedi blog), gli Waterboys all'Auditorium di Milano (sublimi) ed il magnetico Nick Cave and The Bad Seeds all'Alcatraz di Milano a fine novembre. Mi sono capitati anche concerti minori interessanti, uno su tutti, energico e trascinante da morire, quello di Moreland & Arbuckle ad Ameno Blues, duo del Kansas con qualche vaga somiglianza ai primi Black Keys ma meno commerciali nel loro Delta blues-rock ad alto voltaggio elettrico. Il loro 7 Cities rientra nei Best dell'anno, almeno in quella serie B in odore di promozione. Tra i concerti visti solo in DVD consiglio altamente lo show dei Rolling Stonesdello scorso estate ad Hyde Park immortalato in Sweet Summer Sun. Ne ho già scritto sul blog ma ribadisco il concetto, visto che è di moda lo sport di sparare contro le Pietre, dal punto di vista musicale è un signor concerto di rock n'roll vecchi tempi, con canzoni straordinarie ed immortali (magari la scaletta è scontata ma fa parte del tour del 50esimo, quindi una celebrazione) dove loro (in particolare Jagger) confermano il patto col diavolo e di avere sempre avuto il tempo dalla loro parte, nonostante non siano mai stati un gruppo trendy. Non hanno snaturato di una virgola il loro lessico musicale, che era dello sporco R&B contaminato col rock n'roll di Chuck Berry ed il blues di Muddy Waters, caso mai l'età pesa sulle esecuzioni ma questo è naturale. Inoltre come usano loro l'arte della comunicazione non c'è nessuno, le riprese e le immagino sono fantastiche, il montaggio, le sequenze, i tempi sono di una grande regia, per cui consiglio il DVD piuttosto che il CD perché i Rolling Stones rimangono il più grande spettacolo del rock n'roll.
Per i concerti solo sentiti in CD rimando all'ottimo Crossoroads l'annuale guitar festival organizzato da Eric Clapton svoltosi lo scorso anno al Madison Square Garden di New York. Esiste anche la versione in DVD e Blue- Ray che mi dicono ottima ma mi hanno regalato il doppio Cd e godo con questo. La chitarra rock e blues (e anche un po' jazz) in tutte le sue declinazioni, con momenti altissimi (una versione di Green Onions da capogiro, Lay Down Sally mai così avvolgente, Key To Highway con Clapton e KeithRichards, lo scatenato Gary Clark Jr. in una tremenda When My Train Pulls In, i Los Lobos più boogie che mai in Don't Worry Baby, gli Allman con Clapton in Why Does Love Got To Be So Sad di Derek and The Dominos) e altri solo alti ma sempre eccezionali. Un festival galattico per quanto riguarda il rock/blues con un mare di protagonisti, oltre a quelli citati ci sono Keb Mo, Sonny Landreth, Vince Gill, Warren Haynes e Derek Trucks (insieme fanno The Needle and The Damage Done di Neil Young), Robert Cray, Jeff Beck, John Mayer (ottima le sue Queen of California e Don't Let Me Down dei Beatles), Jimmie Vaughan, Albert Lee, Booker T e Steve Cropper e altri ancora, compreso naturalmente lo stesso Eric Clapton impegnato in Tears in Heaven, Lay Down Sally, Gin House Blues, Key to Highway, Sunshine of Your Love e due pezzi di Derek and The Dominos. Più passa il tempo e manolenta si erge come la colonna più luminosa tra i chitarristi del British blues usciti dagli anni '60.
In tutte le classifiche delle riviste altolocate, Mojo, Uncut, Rolling Stone, The Next Day di David Bowie si è piazzato nelle prime posizioni con tanto di recensioni entusiaste. Anche in Italia è stata la medesima cosa, leggo un gran bene un po' ovunque, nei social network e sui giornali. Buon per il Duca bianco. Ho sempre preferito il Principe nero (Lou Reed), che purtroppo ci ha lasciato troppo presto dopo aver sconvolto da solo e coi Velvet il corso della storia del rock. Gli sia lieve la terra e luminoso il cielo (o tiepido l'inferno, più probabile). Del Duca non sono mai stato un grande ammiratore anche se posseggo qualche album ed una antologia, ma non faccio testo visto che reputo Scary Monsters uno dei suoi migliori dischi. Di lui non ho mai amato quegli atteggiamenti snob intellettual-aristocratici e quel sound gelido da Berlino in guerra fredda. E poi negli anni settanta incarnava una decadenza che puzzava un po' di nazismo ai miei occhi, avete presente il film La Caduta degli Dei........personalmente mi sentivo più blouson noir e rock n'roll. Il suo The Next Day, dopo quanto letto, mi incuriosiva anche perché assieme a John Fogerty ( modesto il suo disco di duetti) e Paul McCartney (materia che non tratto) è stato l'unico dei grandi vecchi a sfornare un disco nel 2013. Ma poi mi sono detto, non l'ho mai seguito in 40 anni (il Duca, dico) perché iniziare propri adesso che ne ho più di sessanta, per cui ho lasciato perdere. L'ho ascoltato distrattamente in Spotify e la storia è finita lì. Non insultatemi. Un altro che è finito nelle classifiche "importanti", specie quelle inglesi, è Roy Harper, settantenne nome tutelare dello psycho-folk , che ha avuto nel passato relazioni (artistiche) con Led Zeppelin e Pink Floyd. Il suo The Man & Myth è addirittura venerato come culto e così mi ha indotto, non senza timori, a comprarlo (su Spotify non era disponibile), solleticato anche dalla produzione di Jonathan Wilson, musicista, autore e produttore, che nell'attuale panorama giovanile reputo tra i più interessanti. Certo la storia di Roy Harper è di quelle che fanno retromania e valgono un bella cover story, e poi quelle corna da caprone sulla copertina mi facevano venire in mente i diavoli di Goats Head Soup (altra storia, comunque) quindi mi sono detto, dai Zambo, lascia perdere quelle fottutissime strade americane su cui continui a passare ore della tua vita e fatti un trip nei boschi e nei misteri di Albione, espandi il tuo ascolto cazzo, sii cool e open mind. Conclusione, ho comprato il disco, l'ho ascoltato tre volte con molto impegno e attenzione e poi l'ho rivenduto a metà prezzo ad uno molto più cool di me. Non che sia un brutto disco, intendiamoci, è solo che quel visionario farneticare barocco tra abissi e Dio Pan non fa per me, figlio degli Stones e del Barbera, mistico un giorno al mese e biker sette mesi all'anno. Eppure amo Nick Drake e John Martyn ma Roy Harper è troppo mitologico per me. Per cui sono subito tornato alle fottutissime strade americane con un blues d'annata aspro e farneticante ma umano e realista (non nel senso monarchico), disordinato ma terreno. Mi sono comprato il vinile, in questi casi, complice anche la copertina, è necessario il padellone, di I Do Not Play No Rock n' Roll di Mississippi Fred Mc Dowell, disco del 1970 oggi ristampato, assolutamente strepitoso. Cazzo (non è una parolaccia, solo un intercalare che ne rafforza il senso) che disco. Un disco che se vi capitasse, per fortuna ed una volta nella vita, di avere a cena da voi Keith Richards, potete metterlo sul giradischi e andare avanti imperterriti tutta la sera con solo quello per colonna sonora, perché se dopo il quarto ascolto faceste gesto di toglierlo dal piatto il buon vecchio Keef vi morsicherebbe le mani. A proposito di Jonathan Wilson il suo Fanfare ha spaccato in due critica e pubblico, chi lo odia e chi lo ama, senza mezze misure. Alla americana, due partiti e stop. Meno male che c'è qualcuno che ancora fa discutere, la discussione è vitale, poi ognuno si tiene il suo punto di vista ma almeno si dialoga, si scambiano opinioni, sperando che non si tramutino in slogan o in cori da stadio. Come la penso a proposito di Fanfare è in un post del mio blog, lo trovo un disco non perfetto ma con molte idee e trovate melodiche, arrangiamenti e fantasia, ricorda un disco che ho amato, Pacific Ocean Blue di Dennis Wilson e ha il potere di riportarmi sul Tamalpais sopra la Baia dove David Crosby concepì il suo meraviglioso If I Could Only Remember My Name. E' magari troppo lungo, 78 minuti, se avessero tolto gli ultimi tre brani sarebbe stato perfetto. Ma va bene anche così, un po' di visioni californiane d'antan li regala eccome e certe prelibate acidità ormai li potete gustare solo con lui e con Chris Robinson Brotherhood, quindi consigliato.
Visto che il Boss ha intitolato il suo nuovo album High Hopes (recensione su questo blog, il giorno dopo la Befana, e poi mi do' alla macchia) sono andato a pescare nei mie scaffali l'unico Lp degli Havalinas datato 1990, dove quel trio losangeleno un po' burino e chicano suonava quel brano per la prima volta. Lo facevano alla grande, con l'unica tecnologia di basso/chitarra e batteria, ed era tutto il long playing a girare giusto. Un disco bello ancora oggi, un suono ruspante e frizzante prodotto da Don Gehman che più o meno nello stesso periodo produceva i R.E.M di Lifes Rich Pageant e i Blasters di Hard Line, mica bruscolini. Siamo in quella Los Angeles meticcia, sporca e tatuata che nel rock n'roll è una specie di Eden, gente sfuggita alla galera grazie ad un roots-rock venato di blues, mexican flavour e rockabilly, un album che avrà venduto un centinaio di copie in tutto il mondo e che Springsteen con la ripresa di High Hopes ha consegnato alla leggenda. Tra le diverse tracce di quel' Lp spicca There Was This Mother che pare estratta dalle outtakes di The River (il prossimo 2014 finalmente la ristampa deluxe). Di tempo ne è passato, gli Havalinas non esistono più ed il loro leader, Tim McConnell, se ne è andato a vivere nella fredda Norvegia. Si veste come un tempo, sembra uscito da un party di gothic-rockabilly, sguardo obliquo, tatuaggi a iosa, cuoio nero e aspetto trucido, suona ancora del tagliente rockabilly blues, adesso in prossimità di un fiordo e non nel barrio di East L.A. Come per i giallisti, il Nord è diventata la nuova frontiera del rock. Gli Havalinas nel 1990 sapevano suonare Springsteen, Springsteen nel 2014 (dopo una bella versione di High Hopes ai tempi di Blood Brothers) ha cambiato pelle ad High Hopes con infiltrazioni di silicone boombastic. Che dire? Che Springsteen si interessi più alle classifiche pop che al rock n'roll, almeno in studio di registrazione? Tim Mc Connell è rimasto fedele a sé stesso, anche se alle sue esibizioni ci andranno una cinquantina di persone, non occorre prenotare, si entra gratis e tra birre e aringhe si respira l'odore del caro,vecchio rock n'roll. Se passate dalla Norvegia, fate una sosta, ne vale la pena, Tim Mc Connell è lì che canta blue-collar-rock is here to stay.
Americana è entrata nel gergo comune dei musicofili ( a proposito il libro con lo stesso titolo scritto da Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Massimo Zingari è un must per tutti coloro che amano le strade americane) ma nello stesso tempo come "genere" rock ha perso incidenza, da qualche anno sembra in crisi o magari è solo in trasformazione. Per saperne di più sulla sua evo/invo/luzione rivolgersi a Buscadero e Roots Highway, testate informate, alle orecchie degli ascoltatori è comunque venuta a mancare la primitiva freschezza, la novità, la spontaneità. Anche le band che hanno scritto l'A,B,C del movimento latitano o sopravvivono con dignità, qualcuna ruggisce, isolata ma splendente come una Long Night Moon. E' il titolo del bell'album dei Reckless Kelly, texani anomali e fuori dal coro, suggestionati dalle ballate al chiaro di luna e dalla wilderness . Trovate la recensione in un precedente post e se doveste comprare il disco non vi pentirete. Vi portate a casa i Drive By Truckers che cantano come Steve Earle. Ai confini di americana sono i newyorchesi Del Lords il cui Elvis Club (vedi post) eleggo a disco rock n'roll dell'anno per quell'attaccamento non ortodosso alle radici del genere, ovvero attitudine urbana da Cbgb, suono Memphis, ballate agrodolci, tanto neon e twangin' anni 50. Sono gli ultimi operai del rock n'roll, piacciono anche a Maurizio Landini, ne sono sicuro. Difenderli è difendere il passato di questa musica, la sua storia, e un presente resistente. Disco soul dell'anno (ma ho saltato, mea culpa, Mavis Staples) Memphis di Boz Scaggs, un sopravvissuto dei sixties con una voce al velluto capace di ricreare il mood di Al Green nelle incisioni della Hi Records. E' bianco ma canta con il pathos e l'eleganza dei grandi soulmen, senza mai sbrodolare, affidando i suoi licks chitarristici ad un sound morbido che non nega però affondi nel blues (magistrali Corrina, Corrina e Dry Spell di Son House), nel rock n'roll (Cadillac Walk), nel soul di ogni colore (bellissima Rainy Night in Georgia di Tony Joe White e Can I Change My Mind di Tyrone Davis). Il suo è un ristorante raffinato e non una trattoria casalinga ma una volta ogni tanto una coppa di champagne tira su il morale. E poi è l'unico che si sia ricordato di Willy DeVille riprendendo Cadillac Walk e Mixed Up Shook Up Girl. A proposito, quest'anno è uscito un libro sul nostro caro gitano scomparso nel 2009, si intitola Love and Emotion- Una Storia di Willy DeVille, è l'unico testo al mondo esistente su di lui. Se fossi Gianni Mura nei suoi Cattivi Pensieri domenicali su Repubblica darei il voto: otto.
Un mio caro amico architetto e ristoratore che ha due figli a scuola in età elementare, stanco dei nomi delle teen-boy band che girano in classe tra alunni e maestre, ha iniziato i figli ad una cura Strypes per combattere l'egemonia delle band alla One Direction che girano attorno. Sembra che abbia funzionato, i suoi figli non vanno a dormire se non dopo aver ascoltato Snapshot (vedi blog) . Lo consiglio anche agli adulti sebbene i tipi non siano ancora ventenni. Gli irlandesi Strypes vengono da una provincia povera e depressa e possono contribuire a difendere una gioventù cresciuta nella bambagia dalle porcherie e idiozie e contemporaneamente far felici padri, zii e pure qualche nonno. Col loro disco hanno riportato indietro le lancette dell'orologio al 1965 quando i club inglesi si inebriavano delle gesta primitive di Yardbirds, Stones foruncolosi, i Beatles di Kansas City e Long Tall Sally, i Kinks di You Really Got Me, mettendoci però il tiro degli Inmates, dei primi Nine Below Zero e di Dr.Feelgood in Stupidity . Devastanti e salutari. Blues, r&b e rock n'roll alla velocità della luce, con l'energia del punk . Forse dietro loro c'è un "disegno superiore" visto che fanno da supporter ai concerti degli incensati brit-poppers Arctic Monkeys ma inserire il loro Snapshot nell'ora di Educazione Musicale delle Scuole Medie può essere un primo passo per salvare i nostri giovani dal peccato. Jamie N' Commons (vedi post) col suo Ep, Rumble and Sway, si rivela una delle più allettanti promesse nel campo del songwritig rock, ambito che tra fremiti acustici folk e chitarre elettriche conosce un momento di rinascita (Jake Bugg, Israel Nash Gripka, Johnny Flynn, Willy Mason, Slaid Cleaves, Ben Howard, Hayward Williams solo per fare qualche nome). E' inglese ed il suo nuovo Ep mi ha stupito, difficile trovare oggi tanta forza espressiva, grinta e personalità in un semi-esordiente, una voce autorevole che ti arriva dentro senza preavviso e ti scombussola. Ha l'oscurità di un bluesman ma appartiene ad un mondo post-industriale di geometrie spigolose e metalliche. Un uomo in nero tra Johnny Cash, Nick Cave e John Hiatt, di cui riesce ad offrire una sensibile versione di Have A Little Faith. Folk-rock elettrico del XXII secolo il suo, scuro e sincopato, ma non privo di romanticismo. Sentire per credere. Visto il riferimento non si può negare che Push The Sky Away di Nick Cave and The Bad Seeds sia uno dei dischi più belli dell'anno, lo dice uno che non si è mai strappato i capelli per l'australiano, un disco come quelli di una volta, che si continua ad ascoltare per mesi e mesi. Dei concerti di Nick Cave visti, il primo erano ancora gli anni ottanta, quello di quest'anno all'Alcatraz è il mio preferito proprio per i toni non esasperati alla Grinderman, così come prediligo i suoi album più melodici ed introspettivi, tipo Boatman's Call e Murder Ballads e ovviamente Push The Sky Away, intimista, elegante, a tratti struggente, perfino delicato nell'uso dell'elettronica, eppure profondo ed emozionante. Concerto e album magnifici, un 2013 da incorniciare per Nick Cave ed una canzone, Higgs Boson Blues, per il sottoscritto il top del suo show milanese, già scolpita nella storia.
Della serie casi strani della vita, segnalo il ritorno di Sixto Rodriguez (vedi post) folk-pop-rock singer/songwriter prima dimenticato e poi riscoperto grazie ad un rockumentario, Searching For Sugar Man curioso ed eloquente circa gli up and down del rock, tra poco disponibile in DVD anche coi sotto titoli in italiano. Si racconta la sua strana avventura al suono delle sue canzoni migliori, tratte dagli unici due album pubblicati tra il 1970 (Cold Fact) ed il 1971 (Coming From Reality). A marzo sarà in concerto a Milano e Bologna, date andate sold out quattro mesi prima, stranezze paradossali per un artista che per circa trentanni, a parte Sud Africa ed Australia, è stato completamente ignorato e nessuno se l'è filato.
Che per i songwriter, come scritto sopra sia stata una buona annata, lo dimostra l'interesse che ha suscitato il nome Phosphorescent, creazione del cantautore di Athens, Matthew Houck attorno a cui ruotano alcuni turnisti formanti una band. La sua musica è stata definita alternative country indie rock per via di un suono lo-fi e di un uso misurato della lap steel e dell'elettronica, quasi un ossimoro a prima vista. Ed invece Phosphorescent crea una musica intrigante, melodica e modernista al tempo stesso, con ballate che invogliano a sognare quell'America che negli anni settanta era protagonista dei film della New Hollywood ( a tale proposito consiglio l'economicissimo ed informato e approfondito Lost Highway, pamphlet di supplemento al settimanale FilmTV diretto da Mauro Gervasini, uno dei pochi in Italia che capisce come il cinema si accompagni al rock). Si intitola Muchacho il disco di Phosphorescent e la copertina è singolare: un tipo outsider con tanto di barba, baffi, camicia slacciata e cappello da cowboy è i compagnia di quella che appare come una dolce prostituta all'interno di un motel di quarta categoria ai bordi di una highway americana. Sembra la scenografia di Reno dello Springsteen di Devils and Dust, ma qui atmosfera e musica sono ridenti, niente smarrimento e sensi di colpa ma sorrisi e complicità oltre che birre e sesso allegro. Magari non è così ma le copertine hanno il loro potere e questa di Muchacho è proprio un quadretto filmico. Un disco originale, fuori dai canoni con una musica che accontenta sia i frequentatori dell'indie-rock sia i sognatori di un'America da strade perdute. E poi Song for Zula è una canzone che lascia il segno. I limiti per Phosphorescent si riscontrano in concerto, chi lo ha visto alla Salumeria della Musica di Milano qualche mese fa riferisce di uno show poco diverso dal disco, un poco rigido e senza troppo entusiasmo.
Di tutt'altro tenore i lavori di Tony Joe White e della cantante Beth Hart.Adesso che non c'è più JJ Cale (altra triste perdita del 2013) è rimasto solo Tony Joe White a suonare quel blues strascicato, pigro ed ipnotico che è la fotografia di un sud misterioso e arcaico che sta tra Missouri, Mississippi e paludi della Louisiana. TJW è un settantenne che fa dischi regolarmente uno ogni tre anni, tutti uguali, stesse note, stessa atmosfera, stessa voce bassa e monocorde. Uno swamp-blues dolente ed affascinante, una monotonia che è un pregio, un copione che lui ha inventato e molti imitano. Hoodoo non è tanto diverso dagli ultimi che lo hanno preceduto ma la voce sofferente di TJW si fa carico dei dolori e delle ingiustizie subite dalla popolazione della sua Louisiana, tra disastri ambientabili riconducibili alla cinica logica del profitto e sciagure climatiche "divine" quali alluvioni ed uragani. Nonostante ciò Hoodoo infonde un senso di pace e tranquillità nella ineluttabilità degli eventi, un disco sonnolente, sussurrato, estremamente piacevole.
Puro mainstream nel campo del blues e del soul è SeeSaw della coppia Beth Hart e Joe Bonamassa. E' il secondo disco che fanno insieme e la partnership funziona. Beth Hart ha una voce potente e flessibile, urla ed accarezza, è Tina Turner ed Etta James, è forte e dolce e padrona di chiaro scuri fluttuanti col dono della grande interprete. Maneggia blues, soul, pop e rock con una facilità incredibile e riesce a tenere al guinzaglio Joe Bonamassa, un chitarrista propenso all'enfasi e alle iperboli, spesso sopra le righe, che invece in presenza della Hart rimane nei ranghi, misurato e plateale solo quando serve. Non nego che il loro See Saw lo abbia ascoltato più di quanto prevedessi, qualcuno lo troverà troppo classico ( come d'altra Can't Get Enough dei Rides ovvero il supergruppo formato da Steve Stills, Barry Goldberg e Kenny Wayne Shepherd, consigliato) ma è musica sensuale, calda, ottimamente suonata. Calda e rovente è pure l'ugola di Danielle Schenebelen, bassista, assieme ai fratelli Nick (chitarrista) e Kris (cantante e batterista) membro di un trio che ha rubato il nome ad una canzone dei Led Zeppelin di Phisical Graffiti , Trampled Under Foot. Vengono dal Kansas come gli amici Moreland & Arbuckle e sono divenuti grandi con una dieta di Hendrix, Led Zep, Bonnie Raitt, Otis Rush, James Brown e Memphis sound. Il loro Badlands, titolo e copertina da applausi anche se poco originali, è il classico B-record che vale più di tanti dischi da classifica. Un concentrato di rock viscerale, sporco di blues e di soul sexy come la voce di Danielle che ti toglie il fiato e ti fa muovere anche se sei stanco morto. Sono giovani e pieni di energia, bravi e sconosciuti, onesti e appassionati pur con le ingenuità della gioventù, se qualcuno nei festival blues della prossima estate li mettesse sul palco il successone sarebbe assicurato. Senza spendere troppi soldi.
Non ho mai smesso di usare il mio piatto Thorens, ho conservato centinaia di Lp e continuo ad ascoltarli anche se con meno frequenza del lettore Cd, che consente tempi di ascolto più lunghi senza alzarsi dal pc, dalla scrivania e dal divano. Adesso però che impera la musica liquida, ho seguito la tendenza inversa e sono tornato a comprarmi del vinile. L'ho sempre fatto ma riguardava le mie escursioni a Vinilmania, roba vecchia e usata, anni settanta come Different Climate dei Mallard, consigliata band di Los Angeles molto simile ai Little Feat, o recuperi come Mark-Almond, Mick Newbury e Paul Siebel. Adesso però mi sono messo a ricomprare vinile nuovo di 180 grammi. Ho cominciato con i Black Crowes di Before The Frost....Until The Freeze perché era assemblato meglio ed in modo completo rispetto al CD (una parte della quale andava scaricata in rete) e poi ho continuato con il picture disc Blurry Blue Mountain dei Giant Sand,visivamente fantastico, musicalmente splendido, con I do Not Play No Roack n'roll di Mississippi Fred McDowell, con qualche disco di vecchio jazz, sedotto ad esempio dalla copertina di Cool Struttin' di Sonny Clark e da Inside Dave Van Ronk che ho scelto in alternativa alla colonna sonora del film Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen sullo stesso tema. Per lo più però ascolto vinili che già posseggo, la cosa mi permette di evitare la perniciosa corsa all'ultima ultima edizione deluxe proposta dal mercato o all'ultimo Box Set sbandierato come imprescindibile da critici di manica larga. Molti sono delle esclusive operazioni commerciali basate su una mirata operazione di assemblaggio più che di archivio, naturalmente con un accattivante corredo di foto rare, booklet e trovate grafiche. Sto molto attento a selezionarli, guardando scalette e contenuti, spesso rivado ad ascoltarmi i vinili originali da cui il materiale è stata estratto e mi accontento così, non c'è bisogno di avere qualche outtakes che valgono come il due di picche a scopa d'assi . E' la fortuna di avere tanti vinili e di aver iniziato a comprarli negli anni sessanta. Va da sé che bisogna essere anziani e ciò non è una fortuna. Nella lista dei Box Set del 2013 ci metto innanzitutto il Fisherman's Box di sei CD ( vedi blog) degli Waterboys, esaltante all'ascolto, economico all'acquisto, il quadruplo Brothers and Sisters degli Allman già fuori catalogo, con l'inclusione di una inedita I'm Gonna Move To The Outskirts che da sola vale mezzo cofanetto e altri due CD con una delle prime uscite live della band con Chuck Leavell e Lamar Williams nella line up. Allman diversi da quelli di Duane al Fillmore East ma altrettanto superlativi e coinvolgenti. Non ho comprato il cofanetto su Duane Allman perché il materiale più allettante che contiene è già disponibile in altri CD e nemmeno il Live at The Academy of Music 1971 di The Band perché troppe ripetizioni di stesse canzoni, mentre ho ceduto alla tentazione di acquistare il doppio (non quadruplo) CD rimasterizzato di Moondance di Van Morrison. Lo stesso autore dice di "non riconoscerlo" , forse per questo contiene delle perle nel disco degli inediti come le alternative take di Come Running e Crazy Love, come la outtake Nobody Knows You When You're Down and Out nota nelle versioni di Bessie Smith e Derek and The Dominos e soprattutto come i dieci minuti deliranti di I've Been Working, un funky sensuale alla James Brown (ooops, alla Van Morrison) che abbatte ogni barriera tra musica bianca e nera. Dal punto di vista tecnico la rimasterizzazione ha tenuto i volumi troppo bassi, bisogna alzarli per una resa migliore.
Curioso è l'ennesimo, il millesimo?, concerto dei Grateful Dead , Sunshine Daydream ovvero estate del 1972 in Oregon in mezzo ai boschi e senza polizia, tantomeno hell's angels. Il concerto, tre CD, è all'altezza delle loro cose migliori, con una stratosferica e acidissima Dark Star di 31 minuti ma eccezionale il DVD, filmato pressoché amatoriale in sintonia con i free festival dell'era. Difatti, dopo che i volunteers hanno montato il palco nel verde delle foreste dell' Oregon, sotto un sole cocente, (Veneta è la località), i Dead iniziano a planare nel cosmo coi loro strumenti attaccando in sequenza Promised Land, China Cat Sunflower, I Know You Rider e Jack Straw, gli astanti si mettono a ballare. In meno di un'ora sono praticamente tutti "fatti" e la maggior parte nudi. Tranne i Dead (forse) che sembrano compiti nel loro acid rock, qui psichedelico come non mai. L'espressione di un'epoca felice, una season of love protratta negli anni. Era il 72 e la stagione dell'amore era stata ufficialmente chiusa cinque anni prima. In campo più soffice e sobrio ( ma era stranoto il loro smodato consumo di cocaina mentre lo registrarono) vale la pena la ristampa in tre CD (originale, outtakes ottime ed estratti del Rumours World Tour del 77) di Rumours dei Fleetwood Mac, un disco ai confini del pop, elegante ed intrigante come una bella donna borghese dal fascino discreto e misterioso. Steve Nicks poteva esserla al tempo, anche se i suoi veli, i suoi cappelli, i suoi abiti zingareschi, le sue acconciature, la rendevano troppo fatalona e hippie-chic per essere veramente tale. Rumours è uno dei simboli del rock californiano degli anni settanta, un soft-rock godereccio e raffinato e Stevie Nicks una magnifica vocalist, sentire la sua Dreams è una delle gioie della vita, canzone che ha sedotto anche quell'arruffato di Ryan Adams che con gli Whiskeytown ne faceva una rockata versione ai tempi di Strangers Almanac, la cui edizione deluxe uscita nel 2008 è assolutamente da recuperare.
Mi fermo qui, qualcosa avrò sicuramente dimenticato, degli italiani ho parlato in diversi blog durante l'anno, scusate se sono stato prolisso ma il Barbera mi ha preso la mano. Buon Anno e tanta serenità.
MAURO ZAMBELLINI 27 dicembre 2013
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L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali... Leggere il seguito
Da La Stamberga Dei Lettori
CULTURA, LIBRI -
Stasera alle 23 su La7 Drive di Nicolas Winding Refn
Anno: 2011Durata: 95'Distribuzione: 01 DistributionGenere: AzioneNazionalita: USARegia: Nicolas Winding RefnDrive è un film del 2011 diretto da Nicolas Winding... Leggere il seguito
Da Taxi Drivers
CINEMA, CULTURA -
Libri messi all'indice e libri per ragazzi, buoni compagni di strada nella...
Libri “buoni e cattivi” scelti dai bambini e amati o non amati. Scelti tra proposte aperte, lontane da operazioni di censura. Il lavoro di Astrid Lindgren ha... Leggere il seguito
Da Zazienews
CULTURA, LETTERATURA PER RAGAZZI, LIBRI
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