My Joy (2010), opera prima del documentarista ucraino-bielorusso Sergei Loznitsa, è un film fedele nell’estetica e anche nell’etica alla scuola cinematografica russa. Il palcoscenico è naturalistico, laddove gli uomini, o quel che ne resta della loro condizione, si trovano circondati da un ambiente sovrastante, immobile e immenso, glaciale e solitario. Un silenzio enorme, che fa rumore, riempie lo schermo, tanto che se si tende bene l’orecchio si capisce che a parlare in sottofondo come un eco lontana è l’anima di queste persone, un’anima avvizzita, devastata, distrutta da un mondo infame che l’ha resa pressoché anonima.
È evidente che in quei luoghi smarriti nel nulla le cose non vadano affatto bene; Loznitsa, che con il titolo sembra sarcasticamente enunciare un sentimento che qui non vedremo mai e poi mai, compie un viaggio nello spazio e nel tempo della Russia. Il substrato su cui poggia il suo peregrinare è un camionista come tanti altri che lasciata a casa la compagna parte per il lavoro. L’uomo è una figura paradigmatica di ciò che i suoi connazionali sono, ovvero uomini in balia delle autorità corrotte, attaccati da ladri senza scrupoli, circondati da bambine che fanno le puttane, arrestati e picchiati a sangue senza un motivo. E dopo essere stati al fianco del camionista per un’ora e aver assistito ai suoi incontri, nel tempo di una notte in cui viene depredato da dei malfattori, lo ritroveremo in uno stato catatonico sballottato da un luogo all’altro, usato come oggetto sessuale, ignorato, umiliato, deriso. La parabola discendente si è concretizzata, l’anomia che ingloba questa terra crepuscolare lo ha reso un automa in balia degli eventi.
Ma se le cose stanno così oggi è perché erano tali anche nel passato. Il regista, di cui si avverte la reale sofferenza e partecipazione emotiva, vuole illustrare di come e quanto l’esistenza sul suolo russo sia stata sempre macchiata di orribili vessazioni. Il ponte fra passato e presente è racchiuso in piccoli segnali speculari: la richiesta ossessiva dei documenti da parte della polizia ai poveri cittadini, l’immagine di un uomo morto trascinato a forza (nel prologo e nella sequenza agghiacciante con i due soldati in fuga), come dire che a distanza di anni non è cambiato niente, anzi l’imbarbarimento appare inarrestabile.
L’ostacolo più arduo da superare, e che io stesso, a visione ultimata, sto ancora cercando di oltrepassare, è legato ad uno sfilacciamento voluto e continuamente perpetrato ai danni della storia. Se è vero che il camionista è la base della vicenda, quando egli esce di scena tramite enigmatiche ellissi temporali, il castello rimane senza fondamenta e inizia a traballare parecchio. Si susseguono rapidamente figure meschine che compiono azioni meschine, in alcuni casi quasi indipendentemente dalla narrazione principale, e in altri totalmente come nelle parentesi del passato. La riuscita singola delle scene è ottima, quella complessiva no perché manca di unità propria, vieppiù che l’insistenza di Loznitsa nel mostrarci i diversi processi di disumanizzazione lo fa diventare didascalico, poiché capiamo fin da subito che in Russia la vita è uno schifo.
L’accumulo di cotanto pessimismo ha comunque una catarsi conclusiva di vero cinema. L’involuzione del camionista, o quel che ne rimane, giunge all’ultima tappa, ovvero quella prossima alla bestialità, alla perdita di una qualunque sensibilità: inghiottito da un sistema spietato, tritato dalla malvagità ed espulso, vomitato, come un freddo killer in cammino su una strada che non porta a niente, come tutte le altre del resto, se non ad un illimitato e inquantificabile buio abissale.