Progetto che merita questo My Reincarnation (2011), non foss’altro, prima di tutto, per la lungimiranza della sua regista, nonché produttrice e camera(wo)man Jennifer Fox che già nel lontano 1989 si era incuneata nella famiglia di Chögyal Namkhai Norbu, aka Rinpoche, maestro buddista – esule – che dopo essere fuggito dal Tibet trovò asilo nel nostro paese, e poi un lavoro (docente, non poteva essere altrimenti, all’Università Orientale di Napoli) e una moglie italiana che gli diede due figli, una femmina, e un maschio: Yeshi. Quindi, la documentarista Fox già vent’anni fa e probabilmente con ancora un’idea non completa dell’insieme, aveva deciso di filmare la vita, anche e soprattutto quotidiana, del maestro il quale si rivela, sotto la sua lente, persona umile e con un acuto senso dell’ironia. Ma qui, nel focolare domestico, coglie dei segnali di matrice sanguinea più attraenti di qualunque biografia religiosa, e allora la filmmaker, in particolare nella parte iniziale, diventa confessore di Yeshi che da ragazzino imberbe manifesta timori relativi ad un legame, quello con il padre, che chiaramente non è uguale a quello che “allaccia” milioni di altri genitori e corrispondenti figli italiani. È diverso, e dalle parole del giovane Yeshi velate da una palpabile sofferenza, si intende la sua voglia di essere figlio “normale” per scollarsi di dosso l’etichetta “figlio di Rinpoche”, o, in aggiunta, “figlio di Rinpoche finanche reincarnazione di uno zio sconosciuto – sempre di Rinpoche”.
Yeshi è e diventa a conti fatti il protagonista latente del documentario (dimenticavo: alla narrazione si alternano lui e il padre) che costituendosi in una successione di balzi temporali, e qui i complimenti vanno alla Fox per il suo perseverare, certifica l’invecchiamento di Rinpoche e la parallela maturazione di Yeshi, una crescita situata nell’età anagrafica, perché il ragazzo diventa a sua volta genitore e uomo trovando un buon lavoro, ma anche una crescita che si potrebbe definire spirituale in cui la sua posizione giovanile che prendeva le distanze dal buddismo si ammorbidisce, lentamente. Osservando la salute cagionevole di Rinpoche, Yeshi accetta la propria condizione tradotta inconsciamente (o forse no) in sogni e visioni che gli parlano del tempo, più che del passato del futuro: un tempio, delle colline, un villaggio straniero: il Tibet. Agganciato all’evoluzione di Yeshi in delfino, My Reincarnation tratta indirettamente l’incontro tra due sfere culturali molto lontane, una fusione che si rivela palcoscenico nonché substrato: la differenza che intercorre tra padre e figlio si deve alla propria appartenenza culturale, un padre e un figlio contrapposti da radici geografiche altresì divergenti, l’Italia cattolica e la sua idea di famiglia influiscono molto sullo Yeshi adolescente, eppure connessi da un filo tenace che, c’è da starne certi, non si spezzerà mai.