Mi inchino a te, questo significa Namaste. È il saluto che si scambia in Nepal, quando ci si incontra, quando ci si lascia. L’ho imparato quattro anni fa, nel 2011, quando sono stata tra Kathmandu e la sua valle, Patan, Bakthapur, Pokhara e poi su, fino ai 4.000 metri di Muktinath sull’Annapurna. Tutte zone colpite dal sisma.
Muktinath è uno straordinario tempio, e rappresenta uno dei luoghi di pellegrinaggio più sacri per gli Hindu e per i buddisti: la fiamma eterna alimentata da gas naturale e le sue 108 fonti sacre atraggono pellegrini e monaci da tutto il Subcontinente Indiano.
Le fonti sacre di Muktinath
Così è nato questo blog. Dal nome di una canzone degli U2 (Kite) e per raccontare di un viaggio in Nepal. Per dire a chi restava in Italia, credendo che non avremmo trovato né acqua potabile né energia elettrica (siamo partiti con le batterie solari), che stavamo bene (solo anni dopo Kiteinnepal si è trasformato in un luogo del gusto). In realtà il Nepal ci ha stupito, incantato, stregato, conquistato, travolto. E anche i più scettici hanno dovuto ricredersi quando abbiamo testimoniato di aver trovato un collegamento internet perfetto persino a 4.000 metri di quota, cosa che da noi, anche nei migliori rifugi, è ancora oggi impensabile.
Non posso non pensare al Nepal in questi giorni. Al disastro e alla sofferenza che il popolo nepalese sta vivendo in seguito al terremoto. A tutto ciò che è stato distrutto. Agli occhi di quelle persone, i primi che ho veramente guardato nella mia vita. È stato subito dopo il mio viaggio in Nepal che ho deciso di iniziare a fotografare. Sono loro che mi hanno insegnato a guardare in faccia le persone. Quegli occhi sono nel mio cuore e ci resteranno per sempre.
L’ho capito nel momento in cui ho scattato questa foto, in un villaggio sopra Marpha, tra le montagne a ridosso del Mustang.Ed è proprio pensando a quegli occhi che hanno incontrato i miei, alla sofferenza che già all’epoca testimoniavano insieme a una profonda dignità, che non riesco a capacitarmi di quanto sia successo e stia ancora succedendo. Ho visto quelle case, ho visto come erano costruite, ho visto i templi, ho visto dove le persone pregavano, dove vivevano, dove mangiavano. Durban Square (oggi rasa al suolo) a Kathmandu era “la” piazza: il luogo di ritrovo, di commercio, di incontro, di preghiera, di dialogo. E mi chiedo, come faranno ora che gli hanno tolto anche questo? Là le persone si trovano per strada, vivono la strada. Ora la strada è solo colma di macerie. Il colore e il calore dell’anima nepalese è stato portato via.
E ci ho messo un attimo ad andare a rivedere le foto che avevo scattato. Volevo e voglio rivivere quei luoghi per non dimenticarli, ora che non saranno mai più gli stessi. Il Nepal è un paese povero, ma ricco di cultura, di natura, di tradizioni, di fede. Il caos delle città si contrappone alla pace dell’anima, al silenzio della religione e delle montagne. Le preghiere sono ovunque, portate dal vento, che fa risuonare campane e bandiere.
Campane tibetane si sentono nelle città come sulle vette; le bandiere di preghiera sono ovunque e il vento sussurra le loro parole. E poi ci sono le ruote di preghiera: tutti camminando le incontrano. Tutti le toccano, le ruotano. Al loro interno contengono rotoli con testi sacri. E così lo spirito accompagna ogni gesto quotidiano, anche quello dei turisti che si ritrovano, come è successo a noi, a compiere azioni naturali e comuni seppur così inusuali per noi occidentali.
Le montagne sono straordinarie. Immense. Innevate. Imponenti. Le sorvoli da Pokhara verso Jomoson con dei piccoli aerei, e speri, pregando, che il vento ti sia amico.
Le scali, camminando su sentieri e strade sterrate. Raggiungi villaggi in quota, stracolmi di vita.
Nei paesi al fondo delle valli le persone vivono di quello che hanno: agricoltura e artigianato.
Come faceva, e spero possa fare ancora, Raj Bhai Shakya a Bungamati. Raj è uno scultore bravissimo. Lavora il legno che arriva dalle foreste nepalesi: tek, canfora, quercia, pino himalayano. Vende, anche in Europa. Realizza oggetti sacri, decorazioni, porte, finestre, letti intarsiati. La sua prima opera? Un buddha. Aveva 12 anni.
E poi ci sono i bambini. Ovunque. Tristi. Sorridenti. I più fortunati vanno a scuola, gli altri vivono per strada. Gli anziani sono saggi e fieri, ma in molti non si lasciano fotografare: hanno paura che tu gli voglia portare via l’anima.
A loro, a tutti quelli che ho incontrato, alle mie guide sul posto Pancha, Carlo e Navyo (che so essere sane e salve) va il mio pensiero. Sto aspettando che mi dicano come poterli aiutare, mentre io penso che vorrei salire sul primo aereo disponibile per raggiungerli. Per fare qualcosa di concreto nei confronti di un popolo che oggi si sta confrontando con un’immensa catastrofe. Più grande di quello che da qui, dalla cara e vecchia Europa, ci si possa immaginare.