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Napoli e le sue canzoni: i grandi successi

Creato il 20 dicembre 2010 da Cultura Salentina

di Matteo Dell’Olio


La canzone napoletana di largo successo possiamo dire invece che nasce ufficialmente in occasione della inaugurazione di una grande opera pubblica. Nell’estate del 1880 don Peppino Turco (in Campania il “don” è d’obbligo), che lavora come giornalista per il “Corriere del mattino” diretto da Cafiero e che, abitualmente vive a Roma, va a passare le acque, come si diceva una volta, a Castellammare di Stabia e vi incontra Luigi Denza, illustre figlio di quella cittadina che gareggia con Francesco Paolo Tosti per la palma di miglior autore di quelle “romanze da salotto” che stanno furoreggiando in tutta Europa e procurando agli autori tantissimi guadagni.

Anche don Luigi è in vacanza. E’ venuto a riposarsi, dall’Inghilterra dove abitualmente vive, nella villa paterna di Quisisana, in collina. Solo un paio di mesi prima è stata inaugurata la funicolare che da Pugliano s’inerpica sulle pendici del fumante Vesuvio. Grande impresa tecnologica in un’epoca che vede anche altre opere di straordinario interesse come il Traforo del Sempione, il canale di Suez e la mitica Tour Eiffel.

Si avvicina Piedigrotta, tradizionale appuntamento musicale e canoro e i due amici decidono di divertirsi e divertire il pubblico di villeggianti con una canzone che celebri l’avvenimento e che, loro stessi, eseguiranno. Nasce così “Funiculì-Funiculà” che riscuote un successo travolgente non solo a Napoli, ma in tutta Europa.

E’ una imprevista ventata di allegria che coglie tutti di sorpresa. Una botta di euforia collettiva.

L’editore “Ricordi” (quello di Bellini, Donizetti e Verdi) se ne impossessa e ne vende, in un anno oltre un milione di copie.

Questo strepitoso successo, non va giù al rivale editore Cafiero che, al caffè in un pomeriggio del 1882 avvicina Mario Costa, musicista tarantino di belle speranze e gli propone di musicare, insieme a Salvatore Di Giacomo, suo giovane redattore, la canzone “Nannì”.

Eseguita a Napoli nella villa comunale, nel giro di due mesi la canta tutta la città. Costa diventerà uno dei maggiori musicisti; comporrà molte decine di canzoni e sarà l’autore, tra l’altro, della famosa operetta “Scugnizza” di ambiente napoletano, ancora oggi saldamente in repertorio, come abbiamo detto l’anno scorso, parlando di questo genere musicale.

E’ con “Funiculì-funiculà” e con “Nannì” che si apre l’era trionfale della canzone napoletana, che trova in un poeta, il cantore più avanzato ed efficace.

Salvatore Di Giacomo, figlio di un medico e, a sua volta, medico mancato aveva esordito nel 1879 come giornalista sulla terza pagina del “Corriere del mattino” e si dedica a racconti e bozzetti di vita cittadina raccolti poi in un libro dove illustra con garbo e con puntualità aspetti e difetti del mondo napoletano.

Salvatore Di Giacomo diventerà in pochissimo tempo il maggior poeta di Napoli. A lui si devono i versi di “Marechiaro” di così delicata ispirazione. “A Marechiaro nge stà na fenesta addò a passione mia nge tua Tuzzulea. Nu garofano addora ind’a na testa, passa l’acqua de sutta e marmurea…” Versi di vera poesia in uno splendido, variopinto vernacolo.

Ma, questa sua canzone, non viene musicata dal Costa, come le precedenti e molte delle successive, bensì da Francesco Paolo Tosti e ne nasce uno dei più grandi capolavori sempre sotto l’egida di Casa Ricordi. Di Salvatore Di Giacomo, nelle vesti di autore teatrale oltre che di poeta si avrà anche la celebre “Assunta Spina”, cavallo di battaglia delle più grandi interpreti femminili, da Francesca Bertini a Titina De Filippo, da Bella Starace Sainati a Pupella Maggio a Lina Sastri.

Malgrado i poeti di quel tempo provengano spesso da botteghe artigiane, dal mestiere di posteggiatore, o, al meglio, dal giornalismo di cronaca, i versi delle canzoni sono pregevolissimi sia come ispirazione che come uso della metrica e del verso. E vi è da dire che, questo connubio non è per niente scontato in campo musicale, anche nel celebrato melodramma, traboccante di pessimi versi. Si ricordino “O marinariello”, “O tiempo d’e rose”, “Era di maggio” tra le tantissime altre del repertorio di Di Giacomo.

Altro ingegno fecondo nell’inventiva fu Vincenzo Russo. Solo qualche anno di scuola elementare, poi, il mestiere di guantaio, lavoratore a giornata presso piccoli artigiani nei bassi del rione Sanità. E’ lui l’autore con Eduardo di Capua di “Io te vurria vasà” (più volte cesellata, anche in America da Tito Schipa), di “Torna maggio”, di “Maria Marì”.

Eduardo di Capua fu quel nostalgico compositore, mandolinista e figlio, a sua volta, di un violinista di strada, che aveva scritto la musica, in una pallida giornata d’inverno del 1898, su un testo di Capurro, di una canzone che aveva portato con se in una tournee col padre nella lontana Odessa. Quella musica e quei versi possono definirsi la risposta popolare napoletana all’Inno alla gioia” di Bethoven. E’ “O sole mio”. Un giovane tenore la cantò all’angolo di “Gambrinus” con una orchestra raccogliticcia: quel tenore, il maggiore di tutti i tempi, era appena un ragazzo e si chiamava Enrico Caruso! Con lui quella canzone nata in Russia, partì per l’America e fece il giro del mondo. Con “O sole mio” si sono cimentate le più grandi ugole di tutti i tempi, emulando Caruso. Quasi tutte le canzoni di quell’epoca furono edite e diffuse da una Editrice che divenne, in pochi anni, tra le maggiori, con Ricordi e Sonzogno. La casa Editrice Bideri.

Napoli conosce, tra la seconda metà dell’800 e i primi del 900 una vera rivoluzione edilizia. Viene definitivamente sistemata la piazza reale che assume il nome di Piazza del Plebiscito e viene costruita la chiesa di San Francesco da Paola. viene aperto il Rettifilo che unisce la Stazione ferroviaria al centro attraversando tutta la città; viene attuato l’allargamento della Passeggiata di Posillipo e nasce la funicolare che da Toledo porta al Vomero. Intatto, però, rimane il congestionato centro storico, Spaccanapoli e i bassi dei quartieri spagnoli, fino a Porta Capuana.

La frase del vecchio Agostino De Pretis in visita a Napoli, in occasione del colera del 1885, “bisogna sventrare Napoli”, suggerisce a Matilde Serao il primo di una lunga serie di articoli sui mali della sua città che, poi raccoglierà in volume col titolo “Il ventre di Napoli”, come ho accennato prima, che suscita polemiche e consensi e che servirà a rilanciare la sua notorietà. Ma, la visita di un altro presidente del Consiglio, Zanardelli, è legato al nascere di una nuova canzone che sarà tra le più note.

Oltre che Napoli, Zanardelli visita, nel 1904 anche la vicina Sorrento. La cittadina aveva chiesto insistentemente al governo del tempo, un sussidio per istituire un Ufficio Postale e, l’occasione della visita fornisce al sindaco Tramontano, nel cui albergo Zanardelli alloggia, di propiziare tale richiesta accompagnandola con una canzone. Poi gli raccomanda:”Eccellenza, una volta a Roma, non dimentichi i nostri problemi! E cerchi di ritornare con un bel regalo per noi”.

Il musicista Ernesto De Curtis, da un testo di suo fratello Giambattista, confeziona “Torna a Surriento” per ingraziarsi Zanardelli. Chi avrebbe mai pensato che una canzone così piena di fascino, di malinconia, di dolcezza sia stata scritta (per giunta su commissione) sulla spinta di sentimenti molto prosaici e interessatamente burocratici? Miracolo delle raccomandazioni da sempre emblema del nostro Paese!

Naturalmente Sorrento, oltre a ottenere l’Ufficio Postale di prima Classe e fondi per altre opere pubbliche otterrà con questa canzone una meritata fama mondiale che senza dubbio contribuirà alle sue fortune turistiche future. E’ di quello stesso 1904 un altro grandissimo successo sempre di Ernesto De Curtis ,quel “Voce e notte” di struggente e quasi spietata nostalgia.

E’ la richiesta di amore alla donna che lo ha lasciato per un altro uomo. L’innamorato la invoca nella notte mentre ella dorme o forse finge di dormire: “Statte scetata si voi stà scetata ma fa verè ca duorme a suonne chine…” Dille accussì che i chiagn miezz’a via. Dille accussì ca i moro e’ gelusia…”. Sempre in quegli anni, dall’America, dove sono emigrati in cerca di fortuna Cordiferro e Cardillo dedicano al grande Caruso “Core ngrato”, che lo interpreta per primo. Caruso era allora l’idolo di NewYork.

Alessandro Sisca (appunto Riccardo Cordiferro è il suo pseudomino) dirige a Brooklin il settimanale “Follie di New York” al quale collaborano dall’Italia, Di Giacomo, Trilussa, Roberto Bracco, Carolina Invernizio e Caruso nella sua veste di caricaturista. Si, perchè Caruso ha fatto anche questo oltre che cantare in modo inimitabile. Schizzare delle riuscitissime caricature. Di quegli anni sono anche i successi di Salvatore Gambardella: “O marinariello” e “Quando tramonta o sole”, che riceverà le lodi di Giacomo Puccini.

E’ impossibile enumerare tutti i successi del vastissimo repertorio napoletano. Per farlo dettagliatamente ci vorrebbero forse più di cinque serate come questa. Lo scopo che io, invece mi sono prefisso non è solo quello di citare canzoni ed autori che non hanno certo bisogno di essere illustrati da me, ma quello di tentare di immaginare la Napoli di allora nella cornice delle sue voci e dei suoi canti popolari. La storia di una di queste canzoni però è così importante e particolare che voglio raccontarvela perchè riguarda il maggior poeta italiano della belle epoque e uno dei più amati musicisti di quel periodo.

Nel 1887 il “vate” Gabriele D’Annunzio, in vena di prouderie si era battuto a duello con Eduardo Scarfoglio per una questione di “gossip” (come si direbbe oggi) ma, poi, i due amici-nemici si erano ritrovati a Napoli nel 1891 dove il poeta era giunto in compagnia del pittore Michetti su invito dello stesso Scarfoglio e, sopratutto, di Matilde Serao per una collaborazione sul “Corriere di Napoli” che i due dirigevano.

Nasce così, a puntate, “L’Innocente” che, rifiutato da Treves per immoralità, sarà pubblicato da Bideri. Alla sua partenza da Napoli, tempo dopo, in seguito allo scandalo con la contessa Gravina, D’Annunzio dimentica, sulla scrivania del suo collega Ferdinando Russo il testo di una poesia scritta di getto, in dialetto napoletano. Russo mostrerà, tre anni dopo, nel 95, questi versi a Francesco Paolo Tosti che se innamorerà e li metterà in musica.

E’ così che nasce la celeberrima “A vucchella” edita da Bideri e destinata a grande successo visti anche i nomi degli autori. E’ questo uno dei tanti esempi di come hanno origine, in modo quasi fortuito canzoni, anche le più celebrate. Ed è quanto avviene, per Tosti, anche con la strepitosa “Marechiaro” di cui l’autore non conosceva neppure il sito dove era ubicata la famosa “Fenesta…addò a passione mea n’ge tuzzulea. Pura invenzione di astrazione poetica e quindi di ispirazione musicale. Oggi sotto quella “fenesta” c’è anche una lapide celebrativa che celebra…un’invenzione, anche se poeticamente e musicalmente suggestiva.


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