Titolo: Narcopolis
Autore: Jeet Thayil
Editore: Neri Pozza
Anno: 2012
Bombay è la città e Shuklaji Street è la via in cui il destino si compie.
Lì dove stanze claustrofobiche si trasformano in bordelli e chandu khana - fumerie d’oppio - si consumano le vite di Rashid, Dimple, Rumi, Bengali e Mr Lee.
Nella Bombay dell’autore Jeet Thayil, la realtà è un sogno che trabocca e dilata prospettive e percezioni, trasformando gli uomini in mostri senza testa destinati alla reincarnazione e le hijra – eunuchi - come Dimple, nella donna Zinat dalle forme sinuose sotto la sari.
Dimple, abbandonato e poi evirato in un bordello di Bombay, consegnato come hijra alla schiavitù di una tai, verrà poi introdotto ai segreti dell’amore, della morte, dell’oppio e della lettura dall’anziano Mr Lee, ex ufficiale dell’esercito cinese esperto di chandu. Segreti che riscatteranno Dimple, rendendolo la regina del khana di Rashid e del suo servo fedele Bengali.
Bombay con le sue strade di mendicanti e ammalati, prostitute, assassini, fanatici e spacciatori è la città invisibile, in cui i personaggi reali e surreali di queste pagine si nascondono, predati e annullati dal tempo e dagli eventi. Non c’è traccia nel romanzo della città dei turisti e dei santoni, dei pacifisti e degli asceti a cui ci hanno abituato. I pochi occidentali descritti sono comparse, uomini e donne privi di storia od eroinomani defunti.
Le stanze dell’oppio prima e della polvere - l’eroina – dopo, sono il rifugio poetico di anime perdute, il preludio alla morte, la dimensione onirica in cui trovare il significato profondo delle cose. Fuori, la politica e la religione sono sovrastrutture generatrici di menzogne e violenza, fisiologicamente corrotte, mostri mutanti capaci di fagocitare le speranze e annientare le coscienze.
“Per ogni felicità esiste un’infelicità uguale e contraria. Poi diedi un lungo tiro di charas e la stanza si riempì di luce. Tutto era trasparente. La pelle delle braccia sottile come carta. Mi guardai dentro alla carne e vidi le ossa che si muovevano avvolte in guaine rosa traslucide […] Fumavamo quell’hashish lurido, charas nero di Bombay, […] e fumavamo l’eroina sparsa sulla stagnola. Dicevamo quelle parole, le parole meravigliose prive di significato e d’importanza. […] Ridevamo senza ragione e interrompevamo le risate con il silenzio. […] Tutto era illuminato di significati”.
In questa confusione necessaria almeno quanto il Caos delle origini matura la riflessione di un lettore dapprima rapito e narcotizzato dal flusso delle parole, immobilizzato dal fumo del khana, e quindi liberato da quello stesso io narrante che si era impegnato fin dall’inizio a ripercorrere, attraverso il racconto, la storia di Narcopolis.
Per quanto surreali possano apparire le storie narrate da Thayil, il mondo in cui esse si compiono è profondamente reale. Per quanto consumate siano le esistenze di alcuni personaggi, le stesse tradiscono una bellezza ed un fascino sconcertanti, capaci di suscitare in chi legge autentica assuefazione.
“Non smise d’indossare sari, che le coprivano le gambe ma lasciavano scoperta la pancia, una parte intima che dovrebbero vedere solo mariti e amanti. Aveva imparato a tirare il corpetto sui fianchi, e si era abituata a piegarsi in avanti come per caso, ma di proposito, lasciando che il pallu si scostasse un poco sulla pelle […] Non smise di portare la sari. Cambiava costume a seconda di chi voleva essere, Dimple o Zinat, hindu o musulmana”.
Una cosa è certa: é difficile entrare a Narcopolis, almeno quanto uscirne e salvarsi.
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