Questo è un estratto dal mio “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” (Laurana, 2012), è il capitolo dedicato alle povertà migranti e agli orrori legislativi italiani in materia di immigrazione.
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Quando si parla di immigrazione alla maggior parte degli italiani vengono in mente le immagini delle carrette del mare che solcano il canale di Sicilia facendo rotta su Lampedusa, imbarcazioni gonfie di esseri umani disidratati e in stato di choc che spesso invadono le cronache dei telegiornali per via di naufragi devastanti, o per una conta dei morti che suona scabrosa e seccante per tutto l’Occidente sviluppato (val bene ricordare che a partire dal 1988 il numero delle vittime nel Mediterraneo ha superato la quota delle sedicimila unità).
Per i mass media un migrante subsahariano è principalmente questo: un naufrago scampato a una traversata infernale, un clandestino alle prese con le schedature del Centro di Identificazione ed Espulsione che possiede nient’altro che il proprio vestito impregnato di salmastro.
Quello che viene taciuto, e che si riesce a immaginare solo parzialmente, è il prima e il dopo. Il prima: il deserto, il mare, la scelleratezza di un trattato, quello italo-libico siglato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi, che a fronte dell’impegno italiano a pagare la Libia affinché i migranti africani non sbarcassero sulle nostre coste, chiudeva entrambi gli occhi sui lager libici di Zitlen, Misratah e Sebha, dove le donne intercettate sulle rotte per l’Europa venivano stuprate, e gli uomini lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e in parte dall’Unione Europea. Il dopo: il reclutamento nei ranghi delle organizzazioni criminali, lo spaccio di droga, la vendita di merci contraffatte, la prostituzione, le mutilazioni e le infermità permanenti esposte per ottenere meglio la carità.
Con un po’ di retorica si potrebbe dire che sappiamo come arrivano, ma non sappiamo da cosa fuggono, e soprattutto, non sappiamo cosa trovano al loro arrivo in Italia (o forse lo sappiamo benissimo, ma facciamo finta di non saperlo). Allora diciamo che le cose coincidono fra loro, e se dovessimo trovare una parola che le definisca, diremmo che è ancora quella, triste, dolorosa e semplice, che giunti a questo punto avremo imparato a declinare in tutte le sue sfumature: fuggono dalla povertà per trovare altra povertà.
Le due povertà, pur avendo la medesima sostanza, possiedono comunque sfumature diverse: la prima, quella da cui fuggono, è molto più vicina alla miseria, a quello status in cui, si è detto, non c’è salvezza. La povertà che trovano, invece, è in primo luogo il tradimento di una speranza di vita migliore, ma è soprattutto una condizione alla quale, oltre alle consuete privazioni che circoscrivono ogni genere di povertà, si somma la mancanza dei diritti fondamentali.
Da un punto di vista politico, infatti, un clandestino non ha diritto a cose come il welfare state, i servizi pubblici, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, per non parlare del diritto di voto.
Lo stesso clandestino, per il solo fatto di occupare uno spazio fisico all’interno di un territorio straniero, rappresenta il corpo di un reato che in termini giuridici è definito “di immigrazione e soggiorno illegale”.
Questo reato, nel caso italiano, è stato concepito dal governo Berlusconi in un provvedimento entrato in vigore nel 2009 nell’ambito del famoso Decreto Sicurezza. Si tratta, senza mezzi termini, di una legge razziale – come fu ben evidenziato in un appello firmato da un gruppo di intellettuali italiani tra i quali figuravano Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Dacia Maraini, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia – poiché l’azione penale, in questo caso, colpisce l’individuo in quanto essere e non per le conseguenze che le sue azioni producono sull’ordine sociale.
Nonostante la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo abbia condannato all’unanimità l’Italia per i respingimenti verso la Libia, la demarcazione del concetto di clandestinità fatta da uno Stato nell’espressione delle proprie leggi rimane un’ammissione esplicita che esistono forme acute di disuguaglianza fra gli uomini. Non solo, questa disuguaglianza è sancita attraverso un principio odioso secondo cui a essere incriminata è la povertà in una delle sue fisionomie terminali (tra le altre cose la legge italiana prevede un’assurda pena pecuniaria che va dai 5.000 ai 10.000 euro, che è come condannare un uomo senza braccia a fare cento flessioni). La condizione giuridica di un clandestino è quindi la stessa di un fantasma, le sue probabilità di ottenere una vita migliore rispetto a quella da cui è fuggito sono molto vicine allo zero.
Definire l’immigrazione un reato vuol dire, tra l’altro, che uno straniero giunto clandestinamente in Italia sarà spinto a non avere contatti con le istituzioni, che tutta la sua vita sarà esclusa dai servizi sociali e sanitari, che è il contrario di ogni principio basilare di integrazione. L’accoglienza degli stranieri dovrebbe avere infatti come obiettivo primario che queste persone siano riconosciute e che si affermino come cittadini. Compito dello Stato dovrebbe essere quindi quello di facilitarne un percorso, non di ostacolarlo “usando il cannone” – come ebbe a dire, per esempio, il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi.
Ma cosa distingue un povero italiano da un povero straniero? Con una boutade potrei dire che un povero straniero è un povero senza autorizzazione a essere tale. Mentre un povero italiano mantiene intatti, almeno formalmente e nonostante si trovi in una situazione di indigenza, i diritti, un povero straniero vive una condizione di emarginazione che non è solo sociale, ma che si potrebbe definire onnicomprensiva.
Il povero straniero non può essere povero poiché non può essere in senso lato. Non essendogli riconosciuta una cittadinanza – anzi, essendo riconosciuta la sua sola presenza come un reato – egli non potrà che nascondersi, vivere la sua vita ogni giorno come una non-vita.
Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, nel libro Le pareti della solitudine (Milvia, 1988 e ora Einaudi, 1990) che racconta il mondo segreto di Momo, un immigrato che attraverso la sua storia denuncia senza mezzi termini il razzismo che deborda nella nostra società, scrive: “Da qualche tempo la mia vita è quella di un albero strappato dalle radici. Seccato ed esposto in una vetrina. Non sento più la terra. Sono orfano. Orfano di una terra e di una foresta. Non sanguino più”.
Come spesso accade, la letteratura ci viene incontro offrendoci le metafore migliori per capire il senso intimo e doloroso di una condizione. Ma dandoci anche una lettura inedita di noi stessi, un gioco di specchi. Il povero straniero senza identità né diritti è un albero strappato dal terreno che sarà in grado di sopravvivere finché sopravvivrà linfa nelle sue radici. E noi, dalla nostra parte, siamo gli artefici di questa mutilazione. La sua è una povertà a scadere, oltre la quale c’è un’estensione di tempo piatto e nudo senza presente e senza avvenire.
Sta in questo la differenza profonda che corre tra un povero italiano e un povero straniero.
Che il destino di molti clandestini sia finire nelle maglie del crimine o dell’illegalità è una conseguenza logica di questo stato di cose. Le organizzazioni criminali sono di fatto le uniche che in un certo senso riconoscono la presenza di un clandestino, la ammettono nei propri ranghi, ne legittimano l’esistenza al fine di ridurla in schiavitù per i propri loschi tornaconti. Per le organizzazioni criminali un clandestino senza diritti, senza tutele da parte della legge, senza un nome né un’identità sicura, spesso senza neppure un’età certa, è meno di un animale, è una risorsa ideale che può essere sfruttata oltre ogni limite, spremuta e dissanguata. La sua povertà è niente a confronto dei rischi a cui lo espone la condizione di essere privo di ogni diritto, lo status che lo riconosce come una persona che delinque per il solo fatto di essere.
È per questa via che molti clandestini diventano braccianti a basso costo impiegati nelle raccolte stagionali, alloggiati in stabilimenti industriali o casali agricoli abbandonati, costretti a vivere senza luce, acqua, gas, beni o servizi di alcun genere, e a sopravvivere con i pasti offerti dai volontari delle opere di carità.
Ed è per questa via che molte donne clandestine vengono ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi per la strada, reclutate in patria attraverso l’opera di coercizione psicologica e la promessa di trovare all’estero migliori condizioni di vita per sfuggire da situazioni di grave precarietà economica, introdotte in Europa sfruttando le legislazioni più all’avanguardia – come quella olandese – nel settore dell’assistenza alle vittime della tratta, e successivamente trasferite negli altri paesi, tra cui l’Italia, per essere immesse direttamente nel mercato della prostituzione.
Va da sé che, una volta rimaste impigliate nelle reti di traffici criminali internazionali, queste persone non hanno più scampo.
Allora un povero straniero non è solo un povero e non è solo una persona a cui vengono negati i diritti fondamentali dell’uomo. Un povero straniero è – di fatto o potenzialmente – un nuovo schiavo, vale a dire un individuo obbligato a lavorare sotto minacce fisiche e psicologiche, costantemente controllato da un padrone che gli concede una libertà di movimento limitata o nulla, privato della dignità umana, comprato e venduto come una proprietà privata. E tutto questo a più di sessant’anni di distanza dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che proibisce la schiavitù e la tratta “sotto qualsiasi forma”.
Appare evidente dunque a chi abbia giovato l’introduzione nell’ordinamento giuridico di un reato come quello di immigrazione e soggiorno illegale.
È convenuto alla malavita organizzata, alle mafie, ai grandi network criminali internazionali ai quali è stato messo a disposizione un bacino pressoché illimitato di mano d’opera disumanizzata e a basso costo. Ma è convenuto anche a una parte politica, la destra dei linguaggi nazionalistici e identitari, che ha ottenuto in questo modo facili consensi battendo il ferro sul mito del micro territorio, ossia di quello spazio minacciato – un quartiere, una città, una regione – da cui espellere tutti gli stranieri, da cui emarginarli.
In latino la parola emarginare significava “incidere una ferita, allargare i margini di una piaga”. L’emarginazione che vivono i clandestini oggi è esattamente questo: la loro è un’antica ferita nella quale è stato conficcato un coltello la cui lama fa leva per distanziarne i margini. Una lacerazione inguaribile che produce angoscia, strazio, afflizione.
Ma l’emarginazione esiste a condizione che esista qualcuno che emargini qualcun altro. E il motivo per cui un clandestino subisce, insieme a una discriminazione di Stato, anche una discriminazione di ordine sociale, è che la sua condizione è replicabile, potenzialmente, all’infinito.
Noi vediamo nello straniero un individuo che rappresenta un pericolo per la comunità. Il pericolo di cui lo riteniamo portatore non è tanto – o meglio, non è solo – quello della delinquenza, della criminalità e della malavita, o ancora dell’alterazione dei nostri codici culturali. Il pericolo maggiore che intravediamo in lui è che, con la sua sola presenza, rappresenta la personificazione di una nostra paura ancestrale, quella di perdere tutto, di ritrovarci nudi e soli in una terra straniera e ostile, in una condizione in cui non esiste più comunità, purezza e normalità.
È in questo modo che si finisce per articolare verso gli immigrati giudizi di sospetto, di rifiuto e in ultimo di esclusione. La minaccia non è quella brandita come un’arma di persuasione di massa da certi movimenti xenofobi che gridano all’immigrato che “porta le malattie, picchia le donne e ci ruba il lavoro”. La minaccia è la replicabilità di quel destino.
Ecco perché, per dirla con i latini, conficchiamo il coltello nelle loro piaghe per allargarne i margini.
Abbiamo detto che la chiave per capire il fenomeno dell’emigrazione è la povertà. I sociologi dicono che le motivazioni che spingono gli uomini a emigrare sono sostanzialmente di due tipi: motivazioni biologiche e ricerca di ordine esistenziale e culturale. Le motivazioni biologiche sono quelle dettate dall’istinto di sopravvivenza proprio della razza umana e riguardano soprattutto le forme di emigrazione dal terzo al primo mondo. Quelle di ordine esistenziale consistono nel tentativo di realizzare desideri e aspettative.
Chiaro che in un discorso sulla povertà a interessare sono principalmente le motivazioni biologiche, tuttavia l’aspetto esistenziale non rimane del tutto sullo sfondo.
Molti tra gli immigrati che siamo abituati a incontrare sui marciapiedi, intenti a esporre merci su grandi lenzuoli bianchi, sono infatti laureati. Parliamo del 53% del totale, una percentuale che supera la metà degli stranieri presenti in Italia (si tenga presente che da noi, secondo un’indagine Eurostat, la percentuale di cittadini italiani laureati è 11,6% per gli uomini e 12,8% per le donne, il dato più basso di tutta l’Unione Europea). Una seria politica di integrazione terrebbe conto di certi numeri, se alle limitazioni per gli stranieri, oltre a quelle già citate, non se ne aggiungessero di ulteriori, come la difficoltà nell’ottenere il riconoscimento del titolo di studio e il rischio conseguente di dequalificazione.
In un bel libro del comparatista Armando Gnisci, Il rovescio del gioco (Carucci, 1992 e ora Sovera, 1993), tra le altre notevoli e interessanti cose si legge: “I magrebini non si meravigliano eccessivamente del razzismo italiano – non peggiore né particolarmente diverso da quello francese o svizzero, da quello di Londra o di Brema –, si meravigliano della nostra decadenza e della nostra rinuncia alla dignità. Loro sono solo poveri, noi, ai loro occhi, sembriamo assolutamente impazziti e senza una briciola di saggezza”.
Ecco, eredi come siamo di una cultura sterminata, ma al tempo stesso artefici di un declino inarrestabile e continuo, ci permettiamo il lusso di estromettere chi è capace di riversare la propria cultura in un mondo, il nostro, non solo geograficamente lontano anni luce dal loro. Abbiamo l’arroganza di discriminare chi si rimette in gioco, chi è pronto a ridefinire se stesso e il proprio bagaglio formativo e culturale, forti (noi) di una ricchezza che sovente è solo illusoria, quando non, tragicamente, la maschera di una forma peggiore di povertà.
(Andrea Pomella, 10 modi per imparare a essere poveri ma felici, Laurana Editore, 2012)