“Forse avrei fatto bene a mettermi il deodorante” è il dubbio che mi assale nel notare una presenza femminile numericamente inusuale per questo tipo di eventi. Questo è uno dei motivi per il quale sono contro le donne ai concerti: ti distraggono, ti fanno perdere il focus sulla questione. Finisci a fissarti sulle tette mentre invece dovresti stare concentrato sugli amplificatori. Questa sera però le tette sono anche sul palco quindi non c’è via d’uscita, ce ne faremo una ragione. D’altra parte prima di uscire stavo vedendo una puntata speciale di Ballarò dedicata al nascente governo Renzi, quindi la serata aveva preso una piega ben peggiore. Il testosterone è oltre il livello di guardia, neanche a farlo apposta il concerto parte con Keep On Fuckin’, inno intergenerazionale della depravazione e dei facili costumi. Il set è senza tregua e la band suona con euforica ferocia. Li avevo visti tipo dieci anni fa al tour di Say Something Nasty e ricordavo che fossero tipo un’iradidddio, però uno non è mai sicuro che il ricordo abbia deformato la realtà, qui però è proprio tutto come ricordavo, forse anche meglio. Quanta ignoranza, quanto lerciume, quanta bellezza.
La nuova bassista si rivela una grossa delusione, è un mezzo catorcio, niente a che vedere con sventole quali Corey Parks o Katielyn Campbell. Poi chiaro che se ti viene sotto alla fine ti fai anche lei, se non altro come affermazione di virilità e per dimostrare di essere uomo col pelo sullo stomaco. Chi invece stasera prende mille punti è la chitarrista Ruyter Suys, possiede quella bellezza rovinata da alcool e nicotina; le rughe agli angoli della faccia e la zinna calante sono difetti che aumentano la sua aura da donna di vita vissuta. E poi una così ti scortica vivo.
“Secondo me porta almeno una quarta” comunico a mio fratello dopo un accurato assessment. “Una quarta americana” sottolinea lui. Dato che negli USA tutto è notoriamente supersize lascio a voi la matematica.
Nel frattempo la band continua a pestare senza tregua, Blaine Cartwright dopo l’ennesimo strillo collassa brevemente, un sorso di Jack Daniels ed è di nuovo in piedi. Tutto a posto. I Nashville Pussy sono il grado zero del rock’n’roll e questo è il festival della devianza, perché va bene il post rock, va bene la deriva indie-electro e le produzioni alla moda, però anche viva la fregna che non fa mai male. Si vira momentaneamente sulla passione per gli stupefacenti con pezzi dal nuovo album Up The Dosage (un nome, un programma) ma non sembra possibile in alcun modo riuscire ad uscire da una tensione sessuale eccessiva. Mi allontano un secondo per andare al cesso e mi imbatto in un paio di tizi che pomiciano aggressivi: ora se c’è una cosa che non sopporto è la gente che si slinguazza nei luoghi pubblici, ai concerti metal poi mi sembra addirittura irrispettoso, eccheccazzo, qui la maggior parte della gente non vede fica da mesi e mesi, sbattergli la tua attività sessuale in faccia lo trovo quantomeno indelicato. Non si fa così. Tra birre e pogo si arriva al finalone con Go Motherfucker Go e You’re Going Down. Si accendono le luci e ci si guarda negli occhi, tutti col sorrisone stampato in faccia come ragazzini, qualcuno accenna un commento “queste sono le cose belle della vita”, non si può che sottoscrivere. Sono zuppo di sudore e puzzo come una capra, alla fine il deodorante non avrebbe fatto granché differenza (Stefano Greco).