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"Natale con semplicità" un dono da Fabrizio Fortino

Creato il 24 dicembre 2012 da Fine

Ciao a tutti,

non potevamo lasciarvi a bocca asciutta proprio oggi ed è per questo che siamo qui e per augurarvi una buona vigilia di Natale abbiamo deciso di scartare con voi un nuovo pacco regalo che ci viene gentilmente offerto da...
 
Il tarlo della scrittura ha perseguitato Fabrizio Fortino fin dalla tenera età, ma tutti i suoi scritti in giovane età son o finiti nel cestino, sebbene siano rimasti nei suoi ricordi. Cresce cimentandosi in ogni forma d'arte: disegni, pittura, modellismo, lasciandosi contaminare da qualsiasi genere o stile, accogliendo con entusiasmo suggerimenti e consigli da chiunque sia disposto a dargliene. È in età adulta che la passione per la scrittura si fa pressante, provocando in lui il bisogno ossessivo di mettere su carta ogni sua immagine o pensiero che ruota intorno ad una vicenda ben precisa, in luoghi e tempi al di là dell’immaginario. Questo vorticare di pensieri porta infine alla realizzazione di Black Port, il suo romanzo d’esordio, la sua storia.


Buona lettura e BUONA VIGILIA DI NATALE!!!

Non che ci tenessi in particolar modo a passare la vigilia di Natale in famiglia, ma almeno, per quella sera, non avrei dovuto cenare in uno di quei squallidi ristorantini della boulevard. I contro erano vari, forse perfino troppi per giustificare la mia presenza in quella casa, ma per quella sera, e dico, solo per quella sera, ingoiai il boccone amaro. Ma del resto, come in ogni situazione ambigua (e non so dirvi quanto imbarazzante) che si rispetti, fu una telefonata a salvarmi dalle insulse chiacchiere di quella variegata marmaglia che tendo troppo spesso a chiamare “famiglia”. In fondo, contavo proprio su questo genere d’interruzioni fortunose che di recente, complice il mio lavoro, capitavano anche troppo spesso.  Fu all'incirca tra la seconda portata di tacchino glassato e il brasato in salsa di mirtilli rossi che il mio cellulofono squillò con insistenza. “Fulton” dissi con tono perentorio. Attesi che la voce dall'altro capo terminasse di vomitarmi addosso un fiume di parole di cui non capii altro che... Omicidio... Tähtikuja 1, FI-96930 Napapiiri. Furono sufficienti quelle poche parole per farmi catapultare fuori di casa. I miei, tra la confusione e le infinite pietanze, non se ne accorsero neanche. La zona era transennata da lunghe strisce bianche e rosse, del tutto simili a quegli odiosi bastoncini di zucchero che tanto andavano di moda da quelle parti. Le sirene multicolori dei mezzi del dipartimento danzavano con la miriade di lucine che illuminavano la casa a festa. Casa non era il termine appropriato. Come chiamereste voi una reggia da nababbi (Nababbi Natali in questo caso) con svariati ettari di terreno, piscine riscaldate, sale svago su ogni piano, fabbrica di giocattoli annessa e magazzini a perdita d'occhio? Reggia? Sì, il termine è appropriato. L'occhio mi cadde sul recinto che costeggiava il lato destro della struttura. Una piccola folla in tuta bianca si accalcava su quelli che a prima vista sembravano corpi stesi al suolo senza troppa grazia. Se la troppa grazia, poi, è sinonimo di smembramento, allora assume tutto un altro significato. “Fulton, FBI...” dissi in tono neutro atteggiandomi nel mio completo scuro. “Cosa ci fa il Fairy Boreau Investigation da queste parti?” chiese scocciato uno degli ematologi impegnato a catalogare quello che avrebbe fatto pendant solo con un tavolo da macellaio a fine giornata. Lanciai al giovane uno sguardo poco amichevole e mi feci largo tra i nastri e le tute bianche. “Ci sono tutte... sì insomma, tutte non è la parola adatta” disse lui. “Lo vedo da me” risposi osservando senza troppo interesse i corpi sezionati di quelle che erano state nove renne. “Rudolph, Dixen, Vixen, Comet, Dazzle...” “Non ti ho chiesto un elenco”. Il ragazzo cominciava a darmi sui nervi. Qualcuno mi chiamò a gran voce. “Fulton, fottuto folletto dal colletto bianco!” Quella voce. Mi girai verso il nuovo venuto. “Stufur” dissi senza troppo calore. “Sapevo che il Boreau avrebbe finito per mandare qualcuno, ma non credevo che fossero così a corto d’idee da mandare te” disse ridendo. “Come butta Stufur?” chiesi senza smettere di osservarmi intorno. C'era un bel macello nel recinto, e la storia non era di certo finita lì. Le tracce di sangue proseguivano fin dentro l'uscio. “Ce n'è per tutti gusti. Vieni...” Il piccolo folletto incartapecorito mi guidò all'interno della reggia. Come promesso, ce n'era veramente per tutti i gusti, anche se la musica non cambiava poi tanto. I corpi di una decina di elfi giacevano a terra scomposti e rotti. Sembravano vecchi pupazzi ai quali un padrone stanco della loro compagnia aveva (con molto zelo ed efficienza) donato un ultimo sprazzo di attenzione. Un attenzione mortale. Il vecchio Stufur inciampò in una delle teste che ingombravano il pavimento insanguinato. Probabilmente quella di Pottaskefill (riconobbi il berretto colorato). “Cacchio... come lo tolgo il sangue dagli stivali adesso” ghignò il folletto scalciando a vuoto. Lo ignorai, cercando di farmi un’idea più precisa di quello che era capitato in quella casa. “Opera del Grinch! Quello sporco bastardo è sceso a valle per augurarci il Buon Natale!” disse strofinando lo stivale contro un divano di broccato. Memorizzai il concetto, ma la mia mente si rifiutò di immagazzinarlo. Il Grinch non era il responsabile di quel massacro. Troppa foga, troppo caos, troppo follia. Il Grinch, ammesso e non concesso che avesse avuto il coraggio di imbarcarsi in un'impresa punitiva di tale entità, si sarebbe preso più tempo per operare lo scempio. Avrebbe fatto le cose con tutti i crismi e probabilmente avrebbe dato anche una rassettata (lo conosco, tende a essere un perfezionista su queste cose) oltre a trascinarsi via il suo corpo steso a terra in decine pezzi macilenti. Indicai la poltiglia verde a Stufur. “Credo che gli sia difficile augurarci il Buon Natale in quello stato”. Il vecchio folletto rimase a fissare inebetito quella melma verdognola che era stato il Grinch fino a poche ore prima. “E allora chi dannazione è stato?” chiese senza più un briciolo di dignità. “A chi appartiene questa casa Stufur?” chiesi con dolcezza studiata. “Che domande mi fai” rispose con stizza, “tutti sanno di chi è questa casa. Lo so io, lo sai tu e lo sanno.... sapevano loro” disse indicando i cadaveri. “Rispondi alla mia domanda”. “Ma a Babbo Natale naturalmente”. Sorrisi soddisfatto, ma ovviamente Stufur non colse i miei pensieri. Tipiche frasi come ‘stai pensando anche tu quello che penso io?’, con alcuni folletti non funzionano proprio. “Che stai cercando di dirmi Fulton?”. Si avvicinò a me tanto da toccare il mio naso con il suo. “Per farla breve, amico mio, l'unico corpo che manca in tutto questo casino è proprio quello del padrone di casa. Quindi...” “Vuoi dire che è stato rapito dall'assassino?” “No idiota. È lui l'assassino!” Forse avrei dovuto adottare una tattica meno aggressiva. Forse non avrei dovuto minare a quel modo la sanità mentale (già provata) del vecchio folletto, fatto sta che un fiotto di vomito andò a zozzare il già lurido pavimento. “Che diavolo stai cercando di dirmi?” “Niente di più di quello che ho già detto” risposi. “Cioè che....” “Troviamo Babbo Natale e troveremo l'artefice di questo macello”. Quello che seguì ve lo risparmio per decenza. Sappiate solo che dovetti fare appello a tutta la mia scorta annuale di calma per non aprire un bel buco slabbrato calibro 9 nella testa vuota di Stufur. “Escluso” insistette, “Babbo non potrebbe mai… lui non…” E’ buffo come certe situazioni già di per sé stravaganti, possano peggiorare in maniera ancora più grottesca in solo pochi istanti. Se in quei pochi istanti poi, un vecchio folletto disperato e incredulo, si mette ad aprire porte che nessuno degli agenti aveva avuto la compiacenza di controllare prima, allora tutto assume sfumature ancora più ironiche. Una massa informe si scaraventò attraverso l’uscio troneggiando sopra il povero Stufur. I suoi occhi mi colpirono in particolar modo. Uno sguardo del genere l’avevo visto solo in occasione della caccia all’orco idrofobo della primavera di sangue di Tarsankagas. Il grosso vestito rosso dal colletto di pelliccia era strappato e sporco; così come la folta barba bianca, ora chiazzata di cremisi e di qualcos'altro cui preferii non dare un nome. Il frastuono colpì le mie povere orecchie a tal punto da dovermele coprire con le mani. Babbo Natale torreggiava con in mano una rumorosa motosega che spruzzava sangue nebulizzato sul povero, e ormai in preda alla follia più nera, Stufur. “Oh Oh Oh! Buon Natale!” gridò l’omone poco prima di schiantare la motosega sulla testa del folletto. Furono le ultime parole che uscirono dalla sua bocca. Anche perché, quello che rimase della sua testa, bocca compresa, era ora sparso a terra in una poltiglia macilenta e insanguinata. A me rimaneva in mano una pistola fumante e tanta amarezza. “Niente regali per te Babbo” dissi in un filo di voce. “Sei stato troppo cattivo”.  

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