Qualche giorno fa m’è capitato sotto gli occhi un articolo dal titolo “Per favore, non chiamateli nativi digitali” di Paolo Attivissimo su Agenda Digitale (lo trovate qui). Ho notato che il pezzo parte da un assunto: digitale implica la conoscenza dello strumento attraverso il quale i giovani si esprimono. Come a dire “non puoi parlare se non conosci le regole della grammatica”. Se così fosse parlerebbero soltanto i laureati in Lettere. E manco tutti.
La scoperta
Attivissimo parla esplicitamente dei giovani a cui fa lezione e la cosa strana è che non tenga conto proprio del fatto che sono degli adolescenti, la cui missione è quella di scoprirsi. Tutta la loro vita è giustamente incentrata su loro stessi. Dalle proprie percezioni al corpo che cambia. La mia generazione non è nativa digitale, ma faceva le stesse cose. Ho ricordi molto precisi di come sperimentassimo con la videocamera (quella di mio padre pesava 10 kg) per filmarci o il registratore per sentire la nostra voce o la vecchia polaroid per osservare tutte le nostre imperfezioni. E tutto con un fine: esplorarci attraverso immagini impresse in una videocassetta o attraverso le nostre voci tremolanti registrate su un walkman Aiwa. Dovevamo capire se andavamo bene, se eravamo accettabili per gli altri. Sempre ed eternamente suscettibili del giudizio di tutti.
Il fine giustifica i mezzi
Questo facevamo e questo fanno gli adolescenti oggi, niente di diverso. E’ lo strumento a cambiare, ma il fine è sempre quello. Da adulti, forse, non dovremmo spaventarci o indignarci se la maggior parte dei giovani utilizzano questo strumento. Dovremmo spingerli e invogliarli a proseguire la loro bellissima indagine sul loro personale ignoto. No di certo stupirci se pensano che Thor (con l’H, prego) sia un eroe della Marvel. Perché Thor è un eroe della Marvel e del Tor (robba di informatica spinta), a loro, non interessa niente. Ed è giusto così.

I veri nativi digitali
Questi sono i veri nativi digitali e sapete perché? Perché vivono gli strumenti digitali (tablet, smartphone, pc) come estensioni del proprio corpo in evoluzione e non come degli strumenti esterni. Sta a noi adulti, questo sì, raccontare loro le opportunità, le meraviglie e le insidie che la rete cela ai loro occhi avidi. Dovremmo prestare attenzione che non sviluppino dei disturbi di dipendenza dal mezzo, questo (tra le altre cose) dovremmo fare. Non spiegare cos’è la scheda madre o le specifiche tecniche di un Mac. O, al massimo, dovremmo far venire voglia di farci quelle domande.
Hackers VS MacGyver
D’altro canto, Attivissimo parla anche di “tecnologie chiuse” con software e hardware che non consentono cambiamenti esterni di alcun tipo (la Apple ne è un esempio) come elementi che istupidiscono il giovane “non-nativo digitale” perché non gli permettono di sperimentare. D’accordo, tutto dovrebbe essere apribile, componibile e migliorabile ma, nei fatti, qualsiasi computer lo è. Persino quelli che ufficialmente non lo sono, come gli Apple. Basta sapere come. Il jailbreaking è un’attività molto diffusa proprio tra i nativi digitali che senza aprire fisicamente alcunché riescono a entrare nel computer e renderlo il più personale possibile, come un personal computer dovrebbe essere. I ragazzi seguono i mille mila tutorial che si trovano facilmente on line e il gioco è fatto. Direi che nonostante non siano dei MacGyver che smontano e rimontano, mi par si comportino in modo piuttosto intelligente.

Tempus fugit
La grande risorsa che questi giovani nativi digitali hanno è quello che manca sempre agli adulti: il tempo. Quello degli adolescenti non passa mai, vi ricordate? Certo sempre che tra compiti, judo, basket e catechismo i genitori lascino ai giovani nativi digitali un po’ di tempo per indagare sé stessi. E il loro tablet, naturalmente.