Occuparsi delle navi dei veleni significa pagare un prezzo fissato in termini di intimidazioni, attentati e furti quanto meno strani. È il caso di Gianni Lannes, giornalista investigativo sotto scorta dallo scorso dicembre, che negli ultimi tempi è stato oggetto di nuove pressioni. La penultima poco prima della metà di maggio 2010, non più di una settimana fa, e il sospetto era che sull’auto della moglie fosse stata piazzata una bomba. Il presunto ordigno si rivelerà una manomissione all’impianto elettrico: qualcuno ha sfondato il finestrino, aperto il veicolo e armeggiato lasciando in bella evidenza cavi volanti. Un avvertimento che giunge dopo tre veicoli distrutti (il primo esploso il 2 luglio 2009, il secondo bruciato il 5 novembre e il terzo – auto dai freni manomessi – il 23 luglio 2009). Qualche giorno dopo – mentre il cronista stava radunando documentazione acquisita di recente – i ladri fanno visita alla sua casa: spariscono un computer, una fotocamera subacquea e un hard disk portatile. Approfittando di una breve assenza, entrano nella sua abitazione senza scassinare la porta (nessun segno di effrazione) e non si appropriano di nient’altro: televisore, stereo, gioielli, denaro.
Cos’hanno portato via?
Documenti di lavoro. A casa non ho uno schedario, non ho un archivio, la mole di dati raccolti sta da un’altra parte, ma casualmente ho lasciato quel materiale pensando che tra le mura domestiche fosse al sicuro. Ero stato via tre giorni, ero a Perugia per una serie di seminari e conferenze sul tema dell’informazione. Ho partecipato proprio domenica scorsa alla marcia della pace e quando ho fatto rientro mi sono accorto di ciò che era accaduto. Una brutta sorpresa, anche perché sono sotto tutela del ministero degli interni che dovrebbe sorvegliare anche la mia abitazione, no?
Intimidazione che arriva mentre stai procedendo nell’inchiesta sulle navi dei veleni…
Proprio il giorno prima, l’11 maggio, ero a Roma e dovevo incontrare il comandante generale delle guardie costiere, l’ammiraglio Raimondo Pollastrini. Era stata concordata un’intervista, ma l’ufficiale non si è fatto trovare, nonostante avesse chiesto e ottenuto di conoscere per iscritto le domande. Ne avevo inviate ventitré, ma nessuna risposta, neppure le scuse per l’appuntamento saltato.
Negli ultimi articoli pubblicati sul tuo sito, viene fuori che c’è di mezzo un parlamentare. Chi è? Cosa c’entra?
È il presidente della commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, altrimenti detta commissione sulle “ecomafie”, l’avvocato Gaetano Pecorella, con studio a Milano. C’entra con la questione delle navi dei veleni e dei rifiuti radioattivi perché ho intercettato un bel po’ di documenti del suo studio legale in riferimento all’arrivo nel porto di Ravenna di un carico proveniente da Israele con container di rifiuti metallici. Dalle misurazioni della sezione provinciale di Ravenna dell’Arpa (servizio sistemi ambientali), è risultata una notevole radioattività. Lo studio legale Pecorella-Fares, difende gli interessi di coloro che importano in Italia questo tipo di rifiuti. C’è un carteggio in cui si sostiene che tutto è a posto, tutto è normale. Anzi, lo studio chiede di autorizzare, testualmente, “l’individuazione del materiale radioattivo e [il suo] smaltimento e bonifica in maniera tale da consentire la commercializzazione della parte sicura ed evitare così un grave pregiudizio economico per la stessa. In subordine, qualora si ritenesse che il materiale in ogni caso non debba sostare presso il porto di Ravenna, si chiede che sia autorizzato il trasporto in un altro Paese diverso da Israele”. Questo documento porta la data del 12 novembre 2009 ed è stata inviato all’Arpa di Ravenna, all’attenzione della dottoressa Patrizia Lucialli.
Nessuno ha mai parlato di questo “conflitto di interessi”?
Nessuno. Anche io l’ho colto per caso. Ero a Ravenna per portare a termine una verifica sul registro dei sinistri marittimi e sull’affondamento di due navi albanesi nel medio-alto Adriatico e casualmente mi sono imbattuto in questa documentazione. Dunque ho voluto vederci chiaro e ho scoperto che anche a Ravenna sono arrivati carichi di questo genere. Non è la prima né l’unica nave ovviamente, ma mi fa davvero specie che il presidente di quella commissione parlamentare difenda gli interessi di chi si occupa di questo genere di trasporti a livello internazionale. A questo punto, secondo me Pecorella dovrebbe spiegare la sua posizione e subito dopo dimettersi.
Notizie che fanno parte di un dossier più ampio…
Sì. Non do i numeri, ma la certezza è matematica: siamo a quota 200 affondamenti nel Mediterraneo. Sto parlando dell’Adriatico, dello Ionio soprattutto e del Tirreno. Non si tratta di relitti bellici della prima e della seconda guerra mondiale, bensì di navi affondate dai primi anni Settanta fino ai giorni nostri. L’ultima che abbiamo rilevato è una nave affondata tre anni fa nello Ionio. Abbiamo filmati, fotografie, rilevamenti sonar e poi ricerche nelle banche dati. Per esempio, in quelle dei Lloyds di Londra e Genova, poi sono stati consultati il registro italiano navale Rina e l’Imo, le guardie costiere e le direzioni marittime.
Renderai pubblico il contenuto del dossier?
Questo è il frutto di una ricerca soprattutto in mare, ma anche presso le fonti ufficiali, come l’archivio storico della marina militare. La prima cosa che abbiamo fatto è capire quali erano i relitti risalenti al primo e al secondo conflitto mondiale per fare una cernita: quelli si sa cosa sono ed esiste un elenco risalente al 1952 che li censisce. Ben altra cosa sono queste carrette del mare. Spesso si tratta di carichi a perdere non innocui, pieni di rifiuti chimici e spesso di scorie radioattive. Ma abbiamo trovato anche altro: migliaia di container, droni e missili chiamiamoli penetrator. Due in particolare sono nello Ionio. Tornando alla pubblicazione del dossier, pare che ci siano difficoltà a presentarlo alla Camera dei Deputati e forse sarà più facile farlo a Strasburgo, al parlamento europeo, dove c’è una disponibilità del presidente. Faremo tappa anche in vari porti italiani partendo da Genova e a seguire La Spezia, Livorno, Civitavecchia e su fino a Trieste, risalendo la costa, isole comprese. In merito ai tempi – slittati più di una volta per via della grande mole di materiale, scoperte e riscontri – non dovrebbero andare oltre i primi di ottobre. Inoltre l’intenzione è quella di stampare il dossier in almeno 10 mila esemplari.
C’è un legame tra minacce, furti e le navi dei veleni?
Non mi era mai accaduto in 25 anni di attività di subire pressioni così ravvicinate e anomale. Da 10 mesi mi occupo esclusivamente di navi dei veleni e se si tratta di vendette postume per altre storie è curioso che appaiono adesso. A parere degli inquirenti e dei carabinieri in particolare, sembrano dei tentativi di condizionamento del mio lavoro d’indagine. Peraltro questi episodi accadono sempre in coincidenza di qualche evento: quando devo intervistare qualcuno, quando scopro qualcosa arriva una risposta del genere.
Sei un cronista che sta rischiando, però nessuno ne parla. Troppo solo, come mai?
Non lo so, potrebbero essere tanti i motivi. Innanzitutto non appartengo a nessuna parrocchia, non ho tessere, non sono un raccomandato e non devo ringraziare nessuno. E poi credo che il problema sia più generale, non legato specificamente alla mia persona. Il fenomeno trattato comprende interessi di multinazionali della chimica e del nucleare che negli ultimi trent’anni hanno costituito un cartello, una sorta di network criminale, e hanno utilizzato gli oceani e i mari (Mediterraneo e Italia compresi) per affondare ogni genere di porcheria. Il vero buco nero in Europa e in Occidente è la quantità di rifiuti industriali prodotti: che fine fanno? Aggiungo un altro dettaglio a questa risposta: per la trasmissione di Gianni Minoli “La storia siamo noi”, ho lavorato come autore e consulente ad una puntata sulla strage del motopeschereccio “Francesco Padre”, affondato il 4 novembre ‘94 nel corso di un’azione di guerra simulata nel basso Adriatico. Ecco, la puntata è pronta e ora, senza fornire alcuna motivazione, mi chiedono di modificarne i contenuti violando il contratto che mi hanno fatto firmare. Un episodio del genere potrebbe far pensare a qualche forma di censura.
Non voglio farti i conti in tasca, ma la tua è un’inchiesta è molto complessa, quindi costosa. Da dove arrivano i soldi?
È autofinanziamento. Ho speso soldi miei che avevo da parte. Vuoi una cifra? Non vorrei inquietare oltremodo mia moglie, ma è tanto, migliaia di euro.
Forse le ombre che ti seguono non appartengono alla criminalità organizzata né alla criminalità comune. Chi ti dà la caccia?
Credo vi sia la mano dei servizi segreti di questo Paese e non solo. La vicenda chiama in causa interessi di altri Paesi europei e degli Stati Uniti. Non saprei dettagliare di più. Sicuramente sono seguito e osservato. Peraltro un magistrato del calibro di Francesco Neri me l’ha fatto rilevare di recente a Reggio Calabria: nel corso di un nostro incontro, avevamo “compagnia” e si noti che mentre io ho la scorta, lui non ha nemmeno quella. A una domanda del genere è poi il governo italiano a dover rispondere, quello attualmente in carica e quelli precedenti. E dovrebbe fornire qualche risposta anche in merito a un filmato subacqueo di alcuni minuti che abbiamo messo online nei giorni scorsi: si vede una nave dei veleni nello Ionio e ne chiediamo conto al presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, e al ministro dell’ambiente, Stefania Prestigiacomo. Citiamo loro un caso: è una nave affondata tre anni fa, ci sapete dire cosa contiene o ve lo dobbiamo dire noi? E come mai non ve ne siete accorti, ma l’ha fatto un giornalista? Peraltro non è la prima volta che chiediamo un confronto pubblico al ministro Prestigiacomo: a marzo avevamo proposto un contraddittorio televisivo con i suoi esperti parlando prove alla mano. Non ci è mai giunta alcuna risposta, neanche negativa.
(Questo articolo è stato pubblicato sul Domani di Maurizio Chierici.)