Il Nazismo di Hitler concretizzò l’ideale nietzscheano del Superuomo attraverso l’annientamento del diritto umano all’autoaffermazione e grazie all’automatica obbedienza di un gregge di uomini banali.
Quando si parla di nazionalsocialismo, noto più comunemente come nazismo, la mente è invasa dal confuso affastellarsi di immagini spiacevoli, fastidiosi ricordi non vissuti di un passato mai sofferto. Eppure, quella che alla sensibilità comune apparirà sempre e solo come l’inesorabile (auto)affermazione dell’ideologia malata di un’isolata mente folle su un terreno storico vulnerabile si rivelò essere la concreta realizzazione di un preciso progetto filosofico-esistenziale improntato alla nietzscheana volontà di potenza.
1/La filosofia dietro al Nazionalsocialismo: dal nulla al tutto.
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Nella fragile Germania weimariana, la crisi economica del 1929 fece tracimare l’ormai insicuro scorrere del fiume democratico e intrise la nazione tedesca di totalitarismo. La repentina conquista del potere da parte della dittatura nazista è da collegarsi all’inevitabile disfacimento della democrazia di Weimar, le cui ragioni andrebbero ricercate nella dissoluzione dei patti democratici che ne erano stati prerogativa fondamentale. Sotto la spinta della crisi economica e delle acute tensioni sociali, l’effetto domino provocato prima dalla crisi di efficienza delle istituzioni politiche costituzionali e poi dalla crisi di autorità, cioè da un sostanziale vuoto di potere, portò infine alla conquista della nazione tedesca da parte di Hitler nel 1933.
Tuttavia, prima di quell’anno, il partito nazionalsocialista era una forza assolutamente minoritaria nel panorama politico tedesco, e il suo leader non aveva ancora indossato la carismatica maschera di Führer. Lo storico Grosser lo ritrae così: ‹‹Fino ad allora non era stato nessuno. Un solitario, un marginale, un ex combattente uguale a milioni di uomini che la sconfitta (dopo la prima guerra mondiale, ndr) aveva gettato, amareggiati, stanchi, degradati, per le vie della città dell’Europa insanguinata. Manovale, ospite di un albergo dei poveri, pittore di cartoline postali, candidato sfortunato all’Accademia di Belle Arti: tutti i suoi fallimenti e l’incapacità a integrarsi nella società spingevano Hitler verso l’assoluto.››
E fu così che dall’ignoto di una piccola formazione di estrema destra, il Deutsche Arbeiter Partei (Partito operaio tedesco), quel piccolo uomo dall’ego titanico portò la sua creazione mostruosa, il National Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei, attraverso una lenta e corroborante crescita di consensi, a vantare ben 1.490.432 iscritti nel 1933.
2/La filosofia dietro al Nazionalsocialismo: la volontà di potenza di un Superuomo.
Ma cosa spinse Hitler verso l’assoluto?
L’imperfezione della realtà in cui l’uomo si ritrova gettato, per usare un termine caro alla tradizione esistenzialista di matrice heideggeriana, la spinta all’autoaffermazione, all’imposizione di un controllo ego-centrista su una realtà condivisa apparirebbero ragioni sufficienti a motivare (e non giustificare) il diritto del partito nazista alla sopraffazione della massa. In poche parole, Hitler incarnerebbe l’ideale figura dell’Übermensch proposta da Nietzsche. Non è un caso, infatti, se per lungo tempo, almeno fino agli anni 50, si fosse diffusa la convinzione, poi smentita, che il “filosofo della crisi” avesse fornito le basi filosofiche per l’ascesa del nazismo; un’accusa supportata dal titolo di chiaro sentore nazionalsocialista che Elisabeth Nietzsche aveva attribuito, nel 1906, alla raccolta postuma degli scritti inediti di suo fratello: La volontà di potenza. Per di più, questa convinzione fu rafforzata dagli spunti innegabilmente antidemocratici e antiegualitari del suo “pensiero selvaggio”.
Dalla fine del XIX secolo agli anni Cinquanta del XX, il termine tedesco Übermensch veniva fatto corrispondere all’italiano “superuomo”, a cui successivamente si affiancò la traduzione “oltreuomo”. La prima resa suggerisce una notevole affinità tra il pensiero nazionalsocialista e quello di Nietzsche, il quale avrebbe con tale termine alluso a un’élite di personalità eccezionali, con doti umane superiori alla media, aventi dunque il diritto di imporsi sulla massa: un concetto che, evidentemente, fu fatto proprio dal Führer. La seconda alternativa, invece, da ricollegarsi alle più oneste intenzioni intellettuali del filosofo, indica la necessità che l’uomo in quanto essere umano vada “oltre” i suoi limiti, liberandosi delle false credenze e della paura di vivere. Quest’ultima, a partire da Socrate, lo ha reso schiavo della razionalizzazione: ora egli deve accettare l’idea rischiosa dell’uomo come divenire in via di realizzazione, e non come essere compiuto e pienamente definito a priori. Da un lato abbiamo dunque, come logica conseguenza, la sottomissione dell’altro da parte del superuomo; dall’altro invece la volontà di potenza diventa sinonimo dell’accettazione della vita (la “fedeltà alla terra”), ovvero la volontà di accettare il tragico dell’esistenza e così rovesciarlo nell’opposto: la volontà di vivere.
Torniamo alla domanda: cosa spinse Hitler verso l’assoluto? Una combinazione di entrambe le interpretazioni. L’omuncolo nell’ombra volle spingersi “oltre” i confini della sua gettatezza esistenziale, ma lo fece invadendo i confini di altre vite, diventando un (banale) “superuomo”. Per dirla con quella eccezionale mente filosofica — e scadente mente politica — che era Heidegger, Hitler, come d’altronde qualsiasi essere umano degno di tale nome, era un Dasein, un “esser-ci”, ovvero un’esistenza autocosciente che vede il fatto di essere non come dato di fatto bensì come problema. Mentre l’esistenza di tutti gli altri enti è predeterminata e immutabile, l’uomo ha il potere di problematicizzarla e imprimerle una direzione attraverso le proprie scelte. Stando a Sartre, “l’uomo è libero di scegliere come essere ma non di essere”. Hitler scelse. Si fece padrone del proprio destino. La scelta che fece, però, ebbe un unico, paradossale inconveniente: annientò la libertà di scelta di quasi 55 milioni di altri esseri umani.
3/ La filosofia dietro al Nazionalsocialismo: così parlò Nietzsche?
Può davvero Nietzsche considerarsi spirito fondante dell’ideologia nazista? Non c’è ragione di credere che il filosofo avesse intenzionalmente e anzitempo gettato le basi filosofiche del pensiero nazionalsocialista. Piuttosto, le sue parole vennero travisate dal partito allo scopo di arrogarsi il diritto alla sopraffazione. Ci sarebbero infatti almeno tre ragioni che discostano il filosofo della crisi dalla crisi a cui l’umanità andò incontro. Primo, il nazismo è stato-latrico, mentre tutta la filosofia di Nietzsche è improntata all’esaltazione quasi anarchica dell’individualismo. Secondo, Nietzsche fu sempre ironicamente ostile allo spirito nazionalista, fatto proprio invece dal nazismo, e alla sua presuntuosa ed incondizionata celebrazione della superiorità tedesca e del suo diritto a espandere il proprio Lebensraum, “spazio vitale” (si veda a tal proposito il Mein Kampf di Hitler). Infine, non è presente nel pensiero del filosofo l’elemento antisemita; o meglio, è presente una critica molto aspra alla religione ebraica, ma essa rientra in un discorso di critica al monoteismo.
Nella Genealogia della Morale (1887), Nietzsche afferma che nell’antichità la società era dominata da due caste: guerrieri e sacerdoti. I guerrieri riuscirono a imporre una propria etica, improntata alla totale accettazione della vita attraverso il valore del coraggio e della generosità; i sacerdoti invece vivevano nella paura della vita e nel risentimento e perciò proponevano un’etica basata sull’umiltà, sul sacrificio e sulla rinuncia. A partire dal popolo ebraico, popolo sacerdotale per eccellenza secondo Nietzsche, l’etica religiosa cominciò a soppiantare quella “dionisiaca” dei guerrieri e raggiunse il punto di massima degenerazione con la diffusione del Cristianesimo. Forte di “disvalori” quali l’umiltà e la rinuncia, nei quali la massa dei fedeli poteva riconoscersi, l’“etica del gregge” si impose su quella eroica, contrariamente a quanto teorizzato da Darwin, secondo cui a imporsi sarebbero invece le specie più forti. È invece atrocemente darwiniano il modo in cui Hitler si impose. Ma dobbiamo davvero credere che sia stato un solo uomo a provocare il genocidio di milioni di vite?
4/La filosofia dietro al Nazionalsocialismo: la banalità come radice del male.
Heinrich Himmler ispeziona un campo di concentramento in Russia. Photo Credit: Marion Doss / Foter / CC BY-SA
Se Hitler fosse stato un semplice pazzo con manie di onnipotenza, a quest’ora l’umanità sarebbe ancora in attesa di un secondo conflitto mondiale. Invece, disumana intelligenza e persuasione furono le armi adottate dal Führer per assoggettare le menti dei suoi seguaci, desensibilizzati e ridotti a esseri agenti e non pensanti. Automi alla mercé del male. Privati(si) del cogito e ridotti al sum, quegli uomini non erano più tali: non più Dasein, ma semplicemente Sein, esistenza non cosciente. Il trionfo della banalità, comìè rappresentato ne La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), controverso reportage sul processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, carnefice di centinaia di migliaia di ebrei, ad opera dell’inviata del “New Yorker”, nonché filosofa tedesca e ebrea, Hannah Arendt. La giornalista aveva assistito al dibattito svoltosi nel Tribunale distrettuale di Gerusalemme l’11 Aprile 1961, durante cui l’imputato dovette rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, ‘in concorso con altri’, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista. Nelle risposte che Eichmann fornisce rimbomba l’assordante silenzio di una mente priva di coscienza e si palesa l’automatismo burocratico dei gesti: l’imputato avrebbe meramente eseguito degli ordini. Scrive Arendt: “La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive”. Il crimine è l’indifferenza, la “banale” passività: i delitti del nazismo dovrebbero essere ascritti non tanto alla mostruosità atroce di alcuni carnefici, quanto alla totale assenza di pensiero di uomini banalmente comuni, normali, che, tuttavia, automatizzati e inglobati dalla valanga nazista, perdono ogni cognizione di causa e acquisiscono la disumana pochezza dell’impiegatuccio.
In definitiva pare essere questa la tragica eredità del nazionalsocialismo: l’esperienza, che si augura resti un unicum, dell’annientamento dell’umanità da parte di una stessa umanità annientata.
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