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Nazione e religione nell'identità albanese

Creato il 13 marzo 2011 da Elton77

Di Roberto Morozzo della Rocca

Università di Roma

-Prima parte-

Dopo le recenti vicende politiche e sociali[1], l’opinione pubblica italiana ed europea ha dell’Albania un’immagine di paese alla deriva, deprivato della sua identità dopo quasi mezzo secolo di regime comunista balcanico-staliniano. È l’immagine di un paese abbruttito e distrutto, da cui gli abitanti vorrebbero fuggire così come si abbandona una nave durante un naufragio.

Televisione e stampa – nell’impeto della caduta degli dèi del 1989 e del conseguente clima politico – tendono ad operare un azzeramento della realtà albanese, quasi che il periodo del comunismo, nello specifico caso dell’Albania, avesse ridotto al nulla l’intera storia e cultura del popolo albanese. Bismarck, nell’età degli imperialismi, riteneva che l’Albania fosse niente più che “un’astrazione geografica” destinata a scomparire. La pubblicistica odierna naturalmente non cita il cancelliere prussiano, ma in fondo non suggerisce, per l’Albania, destini migliori.

Sono semplificazioni dei media? Sono le loro iperboliche rappresentazioni ad uso di lettori e spettatori che poco sanno di cose albanesi? Personalmente sono convinto che l’Albania, malgrado il suo avvenire sia al momento incerto, non sia affatto un paese senza identità, escluso dalla storia comune europea, abitato da genti retrocesse a comportamenti e pensieri solo primitivi. Esistono correntemente varie interpretazioni sull’identità e sul presente albanese, che smentiscono l’immagine della tabula rasa.

I realisti dell’economia - vi accenno brevemente – ricordano come l’Albania sia il secondo produttore mondiale di cromo, come esporti energia nei paesi vicini e non manchi di risorse di vario genere per reimpostare vantaggiosamente un corso economico. È un modo, anche questo, per legittimare di nuovo la capacità d’autonomia di uno Stato albanese e per ridare fiducia alla sua popolazione.

D’altra parte, l’obiezione maggiore che si fa all’immagine di un’Albania deprivata di identità e di futuro viene da una visione tradizionale, al limite della retorica, che la cultura europea ha dell’Albania.

Sugli Albanesi e la loro terra la cultura europea ha prodotto, tra Otto e Novecento, stereotipi di ogni sorta: un paese selvaggio e puro; una popolazione indomita e sanguinaria; una religione e una civiltà tra oriente e occidente, tra bazar e monumenti del classicismo; sotto l’influenza di mille culture male assimilate e in realtà con l’unica cultura della natura e della forza; insomma un paese da choc. E molti intellettuali hanno visto il piccolo paese adriatico come un prisma attraverso cui proiettare i loro sogni o i loro incubi. Solo nel nostro secolo, l’Albania è stata la terra dell’uomo libero o del “buon selvaggio”, dell’uomo nuovo o dell’uomo primitivo, della libertà o della tirannia, del comunismo realizzato, come mai altrove, oppure del gulag sotto casa, paradiso incontaminato o invece residuo di mondo antico.

L’Albania come mito perdura a dispetto delle trasformazioni storiche e del crollo di uno stereotipo dopo l’altro. Non c’è più, in Albania, il più temerario e originale tra i comunismi, ma si può sempre attingere alle topiche tradizionali: l’albanese fiero e guerriero, l’albanese uomo d’onore e di istinti primordiali puri. Si veda quanto scriveva nel giugno 1990 la tanto antica quanto prestigiosa Revue des deux Mondes sotto il titolo Shqiprija pays des aigles (Albania paese delle aquile). La premessa è conseguente a una certa cultura francese: la geografia spiega molto, se non tutto, della storia. Ma, poi la cultura francese, a prescindere dal consueto esprit lessicale, non suggerisce interpretazioni particolarmente nuove:

Le milieu géographique suffirait presque à expliquer l’historie de l’Albanie…entre de rudes montagne… Ce paysage d’escarpements a façonné l’âme sans partage de l’Albanais… A nature ingrate, homme extrême, tanné au dehors et au-dedans, indiffèrent à la mort, nourri de la duvet du climat et de la peine à survivre. Code de l’honneur trace à la courbe même des reliefs. Nulle équivoque. La vérité est dans la mort, plus qu’aucun ne le sera jamais”[2]

Le conclusioni, pur nel medesimo genere letterario, devono tener conto della crisi odierna:

“Du sang dans les veines duquel coulait hier la conscience nationale d’un peuple irréductible et fier qui découvre aujourd’hui, dans sa caricature stalinienne, la fragilité de sa mémoire…”[3]

Più vicini al vero degli antichi e nuovi cantori del mito albanese sono stati - a mio avviso – coloro che, senza negare all’Albania un’identità e una originalità, l’hanno intravista nel travaglio storico del popolo albanese, descrivendo l’Albania come un paese esposto agli invasori, sempre costretto a difendersi, arretrato perché ai margini sia della civiltà occidentale che di quelle orientale, e non da entrambe arricchito e premiato. Le parole di Carlo Levi su Eboli – “nessuno ha toccato questa terra se non come conquistatore o un nemico o un visitatore comprensivo”[4] hanno una loro suggestiva validità per l’Albania.

Ma non vorrei proseguire nel presentare e nel discutere questa tendenza della nostra cultura che – per dirla sommariamente – vorrebbe definire un’identità dell’Albania attraverso i tradizionali miti e stereotipi della fierezza e dell’eroicità dell’albanese. Piuttosto vorrei, in quanto storico, contribuire a rispondere al quesito sull’identità albanese fornendo qualche elemento sul nazionalismo e sulle religioni tra otto e novecento. Ad essere schematici, credo che l’identità dell’Albania contemporanea sia debitrice, sotto un profilo ideologico, soprattutto delle correnti e del pensiero nazionalista. Il nazionalismo è stato per gli albanesi una sorta di religione, pur senza sostituire le religioni intese in senso proprio, con le quali ha avuto un rapporto complesso.

Il poeta albanese del secolo scorso, Vaso Pasha, esponente romantico del Risorgimento nazionale, ha particolarmente insistito sulla vera “fede” degli albanesi, che sarebbe poi l’essere albanesi. “La vera religione degli albanesi è l’albanismo” – è l’espressione di Vaso Pasha che gli albanesi ben conoscono. Enver Hoxha amava ripetere queste parole. Ramiz Alia le ha ribadite nel momento in cui rendeva di nuovo legali le religioni in Albania. Ma non è un concetto caro solo ai leader comunisti. Anche re Zog e il suo grande avversario, il vescovo ortodosso Fan Noli, professavano ammirazione per i versi di Vaso Pasha.

In effetti, se in Albania, dalla rinascita albanese ottocentesca a oggi, si cerca il motivo dominante della vita pubblica e della cultura, questo è il senso della nazione, l’esaltazione dell’amor di patria. Il valore supremo, per l’albanese, è la nazione.

La divinizzazione dell’identità albanese operata da Vaso Pasha si fonda su elementi, se si vuole, piuttosto semplici: è la sottolineatura delle bellezze della terra albanese che è “nostra” e di nessun altro, è la fede del sangue versato dagli antenati per difendere la patria. Ma Federico Chabod insegnava da par suo quale potente forza evocativa hanno i termini “terra” e “sangue” per formare l’dea di nazione e soprattutto il nazionalismo[5].

Altri popoli europei hanno conosciuto la fase romantica dell’idea di nazione e da questa sono passati al nazionalismo ed ai naufragi delle due guerre mondiali. Ma sembra essersi trattato, per l’appunto, di fasi transitorie di vicende nazionali complesse. In Albania la storia è stata diversa. L’epoca del Risorgimento albanese sembra essere eterna. L’identità nazionale albanese è stata a lungo soffocata, e poi ha talmente faticato per affermarsi, che l’atmosfera di esasperato patriottismo in cui scriveva Vaso Pasha si è prolungata indefinitamente.

Occorre immaginare quale quantitè nègligeable (quantità trascurabile) rappresentasse una popolazione albanese di poche centinaia di migliaia di abitanti nell’Ottocento, o di poco più settecentomila alla fine della prima guerra mondiale, per gli appetiti dei popoli vicini, i quali vivevano anch’essi in un clima di focoso nazionalismo. La storia è stata ingrata con gli albanesi, giunti per ultimi, nel 1912, alla formazione di uno Stato indipendente tra i popoli balcanici soggetti al dominio ottomano[6]. La lunga repressione delle aspirazioni nazionali, i sacrifici occorsi per ottenere l’indipendenza, e, una volta acquisita, l’umiliante tutoraggio del neonato Stato albanese prescritto dalle grandi potenze, tutto questo ha prodotto un nazionalismo radicale.

Può dirsi che non vi sia espressione delle vita pubblica e della cultura, nell’Albania del Novecento (prima dell’avvento al potere dei comunisti), la quale non si richiami ai valori del nazionalismo ed all’epopea letteraria della Rilindja, la rinascita patriottica dopo il letargo ottomano.

Dopo il 1944, il comunismo ha cambiato l’orchestra ma non la musica. Gli indirizzi politici del comunismo albanese dimostrano ampiamente la centralità della questione nazionale dell’indipendenza e della sovranità. Si pensi all’autarchia economica, alla politica estera che per maggior sicurezza sceglieva interlocutori agli antipodi del pianeta (l’alleanza con la Cina), alla fierezza dell’unicità albanese, alla politica di incremento demografico accelerato (ogni albanese in più, un fucile in più per difendere la patria).

Nel 1976 Mehmet Shehu, il compagno di Enver Hoxha, poi tragicamente scomparso, proclamava: “Certo, l’Albania socialista è piccola, accerchiata, e sottoposta ad un blocco, ma si erge come un’isola di granito nel grande e perfido oceano imperialista e revisionista”.

È l’orgoglio della particolarità albanese. È il medesimo senso di nazione in lotta, la medesima concezione eroica dell’esistenza nazionale, che da Skanderbeg giunge a Vaso Pasha ed infine al regime marxista di Hoxha. Del resto i monumenti a Stalin e ai padri del marxismo costruiti in Albania, se posti a fianco ai monumenti equestri di Skanderbeg, non sfiorava neppure la sella su cui montava l’eroe nazionale[7].

Nel volgere dell’ultimo secolo, non c’è paese vicino all’Albania che non ne abbia conculcato o minacciato l’indipendenza, per tacere della vicenda ancora aperta del Kosovo. Gli albanesi hanno dovuto lottare, armi alla mano, contro soldati e milizie ottomane, serbe e montenegrine, jugoslave, greche, italiane, bulgare, tedesche. Nell’ultimo dopoguerra, Tito voleva fare dell’Albania una provincia jugoslava, e poco dopo, nel 1949-51, americani e inglesi hanno fatto dell’Albania il banco di prova del rovesciamento di un regime filosovietico dell’Europa orientale, tentando invano di avviare una guerriglia all’interno del paese, in vista di un’invasione dall’esterno[8].

La storia sofferta della nazione albanese spiega perché nella cultura schipetara, anche nel periodo socialista, il nazionalismo non sia considerato un termine inequivocabilmente negativo. Quello che per un europeo occidentale è un termine che evoca epoche infauste, guerre, fanatismo razziale, imperialismo, per un albanese può essere un valore positivo. Cos’altro hanno potuto fare gli albanesi di questo secolo, se non difendere la loro patria dalle tante e ripetute aggressioni? L’assolutizzazione del discorso nazionalista non stupisce, e del resto si pensi al consenso che riscuote il nazionalismo in altre regioni europee dove i problemi nazionali non sono risolti, da una serie di regioni e repubbliche comprese in quella che era la federazione socialista sovietica, ai paesi baschi, o all’Irlanda del nord. O si pensi a quanto sta accadendo proprio accanto all’Albania, nella federazione jugoslava preda della guerra civile.

La scelta per l’ateismo di Stato, o, come qualcuno ha scritto, per “l’ateocrazia”, nel 1967, non è stata una scelta per una sorta di confessionalismo nazionalista. È esistita nell’Albania di Hoxha una religione di Stato, quella della nazione, provvista delle tendenze inquisitoriali e intolleranti di una religione di Stato che ha a sua totale disposizione il braccio secolare. E, poiché l’Albania ha una sua tradizione islamica, non è neppure mancato il Profeta: in questo senso potrebbe intendersi il culto della personalità di Enver Hoxha.


[1] L’autore si riferisce agli anni novanta del secolo scorso. “ndr”.

[2] Cfr. Revue des deux Mondes, juin 1990, pp. 42-53, p. 43. Trad. “L'ambiente geografico è sufficiente a spiegare la storia dell’Albania... tra le rudi montagne... Questo paesaggio di scarpate ha dato forma all’anima indivisa degli albanesi ... Una natura ingrata, uomo estremo, abbronzato dentro e fuori, indifferente alla morte, alimentato dal clima e dalla pena a sopravvivere. Un codice d'onore traccia la curva stessa dei rilievi. Nessun equivoco. La verità è nella morte, più che in qualsiasi altra cosa.”

[3] Ibidem, p.44. Trad. « dal sangue delle vene dal quale scorreva ieri la coscienza nazionale di un popolo irriducibile e fiero che scopre oggi, nella sua caricatura staliniana, la fragilità della sua memoria »

[4] Cosi in Cristo si è fermato ad Eboli, Torino 1945.

[5] Si vedano a questo proposito le classiche pagine dello storico valdostano in F. CHABOD, L’idea di nazione, a cura di A. Saitta e E. Sestan, Bari 1961.

[6] Sulla formazione dello Stato indipendente con il relativo processo risorgimentale si vedano, per un inquadramento, S. SKENDI, the Albanian National Awakening (1878-1912), Princeton Un. Press, 967; G. CASTELLAN, l’Albanie, Paris, 1980; e Histoire de l’Albanie des origines â nos hours, a cura di S. POLLO e A. PUTO, Lyon, 1974. Una bibliografia a questo proposito in Albanie, une bibliographie historique, a cura di Odile DANIEL, Paris, 1985.

[7] Due recenti descrizioni critiche dell’Albania degli anni Ottanta, in cui si rileva il particolare carattere “nazionale”del marxismo albanese: E. e j-p.champseix, 57, boulevard Staline. Croniques albanaises, Paris 1990, e F. TOZZOLI, Il caso Albania, Milano 1990.

[8]Su questo aspetto poco noto della recente storia albanese,cfr. N. Betel, La missione tradita. Come Kim Philby sabotò l’invasione dell’Albania,Milano 1986.

Tratto da: LINGUA MITO STORIA RELIGIONE CULTURA TRADIZIONALE NELLA LETTERATURA ALBANESE DELLA Rilindja. Il contributo degli Albanesi d’Italia. Atti del XVII Congresso Internazionale di Studi Albanesi. Palermo 25 – 28 novembre 1991


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