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(ncl archives) WINTER SLEEP di Nuri Bilge Ceylan – Palma d’oro a Cannes 2014)

Creato il 29 settembre 2014 da Luigilocatelli

Questa recensione è stata scritta il 17 maggio 2014, dopo la poriezione s cxannes in concorso del film. Che avrebbe poi vinto la Palma d’oro. Winter Sleep sarà nei cinema italiani con il titolo Il regno d’inverno dal 9 ottobre 2014.33b9877707f1c62846e6e9a94d27e8dbWinter Sleep, un film di Nuri Bilge Ceylan. Con Haluk Bilginer, Melisa Sözen, Demet Akbağ, Ayberk Pekcan. Presentato in concorso.
6fc0f0fba9bb4967e71060a48e06c11531ff29fbaa34ec38fa5fc02deefbf8a1Il maggiore regista turco, uno dei beniamini di Cannes, spiazza tutti con un meraviglioso film di 3 ore e venti dove, al posto delle sue solite interminabili sequenze contemplative e senza parole, si parla molto, moltissimo. Cinema di conversazione, e anche di confronto-scontro di personaggi, tra Cechov e Strindberg. Con un ex attore che si è ritirato nei suoi possedimenti in Cappadocia, la sua giovane moglie insoddisfatta, la sorella reduce da un divorzio. Un interno-inferno di famiglia, mentre là fuori domina la potenza della natura. Da Palma d’oro. Voto 9
0213537b611ff4bc9c218f9ded766c15Nuri Bilge Ceylan deve essersi stancato di sentirsi dire dai suoi (molti) detrattori che il suo cinema è troppo pieno di silenzi, di sequenze contemplative dove ‘non succede mai niente e non si capisce niente, eccheppalle!’. Bene, stavolta il gran turco – presente alla proiezione alle 15 ieri in Salle Lumière e ricevuto con tutti gli onori, come si deve a un beniamino del festival qual è, dal delegato generale Thierry Frémaux e addirittura dal mitologico presidente Gilles Jacob – ha spiazzato tutti, i detrattori ma anche gli estimatori (tra i quali mi colloco dai tempi di Uzak). Realizzando un film parlato, parlatissimo, dove le sue famose interminabili carrellate su paesaggi preferibilmente brulli e flagellati da tutte le intemperie ci sono sì, ma assai ridotte rispetto al solito, un film che è volutamente e smaccatamente teatrale, con dialoghi complessi e mirabilmente cesellati anche se di immediata presa e fruizione. Si tratta in fondo, e nonostante le molte escursioni all’esterno – siamo nel meraviglioso e lunare paesaggio di quella Cappadocia di abitazioni rupestri già usata da Pasolini come Colchide in Medea – , un kammerspiel, una commedia a porte semichiuse all’inizio abbastanza cecoviana e poi sempre più cattiva e crudele, sempre più dramma ibseniano-strindberghiano, con un confronto serrato e senza esclusione di colpi tra il protagonista Aydin e le due donne che gli stan vicino, e intorno un nugolo di personaggi non così minori, non così collaterali, anzi. Con trame e sottotrame e traiettorie che si intrecciano, denunciando una cura minuziosa in sede di sceneggiatura, evidentemente pensata e limata a lungo. Aydin è un signore maturo di molti beni laggiù in Cappadocia, di una famiglia di possidenti da generazioni, per 25 anni ha fatto l’attore teatrale, poi si è ritirato lì, in quella terra lunare, a gestire un piccolo hotel con stanze scavate nella roccia chiamato Hotel Othello e meravigliosamente shabby chic, un posto da urlo da andarci subito. Produce articoli per un giornale locale, ma l’ambizione è quella di scrivere una storia definitiva del teatro turco. Con lui abita la sorella, reduce infelice da un divorzio, e la giovane e bellissima moglie, in preda a continue crisi bovaristiche e organizzatrice di cose charity per sentirsi utili e non solo appendice di quell’intelligente, ma ingombrante marito. Tre anime insoddisfatte, che da quelle parti si sentono in esilio e che, come le sorelle cechoviane, non fan che sospirare, pur se per diversi motivi, ‘A Mosca, a Mosca!’, con la differenza che la loro Mosca è l’adorata, sempre sognata Istanbul. All’inizio tra Aydin e le due donne son bonarie schermaglie, poi le cose precipitano, si incattiviscono, tra rinfacci e scoperchiamenti di insoddisfazioni e colpe vere o presunte. Winter Sleep parte magnificamente, con quella scena della sassata al furgone di Aydin e del suo tuttofare-bracciodestro lanciato da torvo ragazzino di una famiglia poverissima, con padre alcolista appena uscito di galera e uno zio imam, l’unico a portare a casa qualche soldo. Adottando un cinema della minaccia e dell’allusione alla Haneke, Nuri Bilge Ceylan ci fa subito capire che in quel paradiso (anche per turisti) il disordine è in agguato, violenza e caos son pronti a riprendersi il mondo e le esistenze. Winter Sleep dura 3 ore e venti, ma vi assicuro che non ci si annoia, a patto beninteso di amare Ceylan. Naturalmente non mancano le scene che portano impresso il suo marchio. La magnificenza di paesaggi che tutto ingoiano e sovrastano. Gli altipiani anatolici d’inverno sotto la neve. Ma stavolta il sommo regista non si adagia nei suoi manierismi consolidati, e invece scommette forte e coraggiosamente su un cinema-drammaturgia, vincendo la sfida. Realizzando un film che è profondamente turco e insieme connesso alla cultura occidentale (quel dialogo sull’opportunità o meno di perdonare il male è puro Bergman). Aydin è l’intellettuale turco con uso e conoscenza di mondo, ma che ha le radici lì, nell’Anatolia più profonda e non se ne stacca. Incredibilmente per un film di tale stazza a fine proiezione c’è stato un grande applauso, il più lungo riservato ai film del concorso finora. A oggi, la mia personale Palma d’oro, un film che si stacca nettamente dagli altri (non molti) scesi in campo. Mike Leigh al confronto stinge. Però attenzione all’argentino Racconti selvaggi, proiettato per la stampa ieri sera, che s’è rivelato una grande sorpresa. Un film a episodi che ricorda I mostri di Risi e parecchio Marco Ferreri.


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