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Ne valeva la pena

Creato il 11 settembre 2014 da The Lovehandmade Team @b_grimaldi

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Erano due bambini, piccoli e perfetti come il mondo visto dal cielo. Si conoscevano da sempre e da mai e si erano ritrovati sotto il cielo caldo dell’estate. “Posso venire a giocare da te?”, aveva detto lui. “Vieni per restare”, aveva risposto lei.

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Inventarsi dei giochi tra il sole, la sabbia e il mare era stato facile facile. E tra un gioco e l’altro lui le aveva già sussurrato all’orecchio un segreto e rubato un bacio. “Ci vediamo dopo?”, disse lui. “Solo se resti fino all’alba”, disse lei. Il tempo insieme era come una luce che attraversa un prisma, si apriva in un milione di dimensioni parallele. Potevi vederli quei due bambini crescere e diventare due adulti ad una festa in spiaggia a baciarsi immobili mentre tutto il mondo attorno si muoveva a tempo di musica. Potevi vederli adolescenti a fumare erba in una veranda con l’eccitazione di scoprire l’uno il corpo dell’altra. Ma poi tornavano bambini e i bambini a furia di giocare insieme litigano. “Questo gioco non mi piace”, aveva detto lui. E lei in un attimo pensò a tutti i giochi che avevano fatto. Guardò i suoi giocattoli e le sembrò che lui li avesse ormai toccati tutti e se fosse tornata a giocarci da sola nulla sarebbe stato più come prima. I pomeriggi senza lui le sarebbero sembrati come il proprio salotto vuoto dopo una festa, il ricordo incasinato di qualcosa di bello che è finito troppo presto. “Per favore, resta”, disse piangendo senza nemmeno accorgersene. Lui voltò le spalle ed andò via. Il giorno dopo c’era un vento fortissimo in spiaggia e lei era sola e ferma ad aspettare. Era l’ultimo giorno d’estate. Prima di andar via avrebbe sepolto giochi e ricordi su quella spiaggia, la festa era finita ed era tempo di riordinare il salotto. E poi di nuovo lui. “Vieni a giocare da me?”, disse, aveva gli occhi grandi di chi nasconde un milione di cose ma non crederesti mai che possa farti male. A lei venne in mente di quando si erano addormentati in spiaggia. Lui si era spento dolcemente e lei gli aveva appoggiato la testa sul petto e aveva chiuso gli occhi. Al risveglio lo aveva guardato dormire per un attimo e poi era rimasta incantata ad ascoltare il ritmo forte del suo cuore. Non sono cose da bambini queste, aveva pensato. Quello era l’istante in cui era chiaro per lei che non fosse più un gioco e basta. Sarebbe andata a giocare da lui quel pomeriggio e tutti i pomeriggi a venire se avesse potuto. Lui era un gioco di cui non capiva le regole, in cui non poteva vincere e non le importava. Era un gioco truccato, come un dado con le facce tutte uguali o un cilindro col doppio fondo. Era la tana del Bianconiglio in cui lo stesso Bianconiglio ti consiglia di non entrare. “Meglio perdermi che trovarmi”, aveva detto lui una volta. Ma i bambini sono testardi e se gli dici di non toccare il fuoco li stai destinando a bruciarsi da lì a poco. E quando finalmente si ritrovarono a giocare insieme sembrava non si fossero divisi mai. Giocarono a fare i grandi, giocarono a passeggiare per la città al tramonto come fanno i grandi, giocarono a fare i fidanzati come fanno i grandi. E quando i grandi fanno questi giochi vanno a cena fuori e si guardano negli occhi, bevono un bicchiere di vino bianco e finiscono per baciarsi lungo un fiume seduti su un muretto. “Mi piaci tanto”, “mi piaci da sempre”, aveva detto lui. Quando i grandi giocano così si raccontano un po’ e si scoprono un po’, a volte si fanno delle promesse. “Voglio venire a trovarti”, aveva detto lui mentre parlavano su di una terrazza. A volte finiscono a letto incastrandosi perfettamente l’uno nell’altra e poi senza alzarsi restano a tenersi per mano e a parlare di quante volte se lo erano immaginato quel momento. E, se tutto va bene, lui la guarda e le chiede “ti posso abbracciare?” e si addormentano così, un po’ più leggeri perché si sono presi l’uno i guai dell’altra e si sono fatti passare dentro un’altra porzione di vita. E lei tutto questo lo aveva visto succedere negli occhi grandi di lui, domandandosi come sarebbe stato risvegliarsi dopo una notte così e rivederli quegli occhi grandi al mattino. Le piaceva pensare a come avrebbe potuto essere quel noi, quella possibilità di giocare insieme ancora e ancora, perdersi e ritrovarsi sempre in quell’incastro esatto. Alla fine di quel pomeriggio lui ripeté “questo gioco non mi piace”. Era come un film che si blocca sempre sul fotogramma più brutto, quello in cui l’attore fa una smorfia strana. Era come un incubo in rewind, era di nuovo l’ultimo giorno d’estate. C’era stata una festa del suo cuore anzi c’era stato un rave ed ora erano tutti tornati a casa e lei era rimasta tra i bicchieri e le cartacce da raccogliere con la sola voglia di fermarsi a urlare con tutto il fiato. Non aveva idea di come sarebbe stato tornare a giocare da sola perché quel gioco, seppure truccato, era il più divertente che aveva mai fatto. Ma ai giochi truccati non si vince mai per definizione. Sono fatti per distrarti con un attimo di meraviglia che precede la fregatura. E tu la vedi quella pallina, ti sembra di poterla seguire con lo sguardo. Credi per un attimo di sapere sotto quale bicchiere è stata nascosta e su quello punti tutto quello che hai. Ma quando guardi sotto il bicchiere non ci trovi nulla, era tutto un gioco di magia. Ci si sente un po’ stupidi a perdere così, a perdere giocando. Siamo pronti ad ammettere le sconfitte nelle cose serie della vita ma restare feriti da un gioco è una cosa da bambini. Lui per lei era un po’ come un ginocchio sbucciato dopo una corsa troppo veloce. Ai bambini va bene anche ferirsi se il gioco ne vale la pena. Ne valeva decisamente la pena.

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