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Nebbia (dal passato)

Creato il 08 febbraio 2022 da Annalife @Annalisa
Nebbia (dal passato)

Anni fa, quando la quercia dinnanzi alla portafinestra non copriva ancora tutto il panorama ombreggiandolo, un’estate mi sedetti fuori sul balcone cercando di prendere il sole e leggendo un libro. Leggendo più libri, ma per qualche motivo quei pigri pomeriggi assolati sono per me legati a un titolo che mi prese, allora, moltissimo: “La dismissione”, di Ermanno Rea: mi attirò la storia, e mi illuminò sulle sorti dell’Ilva di Bagnoli (quartiere di Napoli) e della Napoli operaia del protagonista, Vincenzo Buonocore.
E prima ancora, quando ero una ragazzetta, mi appassionai a uno scrittore che mi presentava, anziché i popolani di Rea che strillano e si dannano in una vita faticosa, quella classe borghese che ha talmente poco da fare che non le rimane che avvitarsi su sé stessa, sulle proprie giornate più o meno monotone, e sulle vicende personali che danno origine a percorsi, ragionamenti, continue elucubrazioni su sé stessi o, al contrario, a fughe da quelle che potrebbe essere una realtà poco appetibile e, perciò, negata.

Non so che cosa mi abbia spinto a tornare a rileggere Michele Prisco, o meglio, so che mi son detta: perché lo amavo così tanto? Che cosa c’era che mi piaceva? Vediamo.
Così, nonostante la pila di romanzi o saggi che mi aspettano intonsi, sono tornata a leggere quelle vecchie edizioni, partendo da “Una spirale di nebbia”, premio Strega del 1966. Quasi sessant’anni di vita il romanzo, qualche decina d’anni di lontananza la mia lettura.

Ho faticato. All’inizio, ho faticato.

E anche se l’abitudine alla lettura dovrebbe accompagnarci senza troppo sforzo verso testi più impegnativi, quello che mi è accaduto in questi anni è stato di adagiarmi in letture facili, veloci, intriganti, bei gialloni, noir misteriosi, thriller tesi ed eccitanti, romanzi di qualche spessore ma di facile lettura, e così via.
Perciò, ho faticato a calarmi completamente nella storia raccontata, e ho impiegato alcuni capitoli prima di essere catturata e di interessarmi davvero a quello che stava succedendo.

Colpa mia.

Di contro, però, fin dall’inizio ho cominciato a respirare meglio, come quando comincia un’aria che ti riempie i polmoni senza sforzo, e il paesaggio si allarga, e tu incontri cose preziose qui e là: il madore degli uomini riuniti nella prima pagina; la giornata cenciosa; le brevi istantanee che raccontano un pezzetto di vita; le tante, insistite, illuminanti metafore che hanno bisogno di poche righe per farti capire che cosa sta succedendo o come sta la persona dagli occhi splendenti ma “consumati, come a volte succede a certi pomi d’ottone di continuo lucidi non più per l’impiego di sidol o altro prodotto detergente ma per l’inevitabile corrosione provocata da tutte le mani che vi si son posate sopra in un logorante e ininterrotto strofinio”.
Sì, a volte ci si perde in queste descrizioni, oppure nelle divagazioni che con naturalezza ci portano dalla vicenda narrata ai ricordi che un particolare suscita nei protagonisti, o ancora negli episodi minimi che intervengono a interrompere lo svolgimento del racconto principale ma che servono a suggerire un’altra felice osservazione che ti porta a dire: eh, sì, è proprio così che succede.

Però ho faticato, all’inizio, dicevo.

Perché Prisco si rivela a poco a poco, nella storia, nei personaggi, nelle costruzioni sintattiche e narrative che vengono tessute con pazienza certosina e pazienza certosina richiedono: ma non bisogna aver fretta di scoprire chi ha fatto che cosa: pagina dopo pagina, osservazione dopo osservazione, tassello dopo tassello, si ricostruisce l’albero genealogico della famiglia Sangermano, conosciuta e potente; si scopre, dopo non poche pagine, che il morto dell’inizio è in realtà Valeria, moglie poco gradita di uno dei cugini Sangermano; flashback e ricordi si mescolano al presente, come se stessimo guardando più album di fotografie, di tempi diversi, e cercassimo di capire chi è chi, chi è stato a fare cosa, mentre unica preoccupazione della famiglia è soffocare lo scandalo di un eventuale processo. E intanto, messe da parte le fotografie “in posa”, affiorano tutte le contraddizioni, i problemi, le insofferenze e le rabbie di molti dei protagonisti.

Ricordi, pensieri, flussi di coscienza strattonano il lettore da un personaggio all’altro: all’inizio è faticoso (l’ho già detto, eh?), ma poi si viene presi dalle realtà scomode che spessissimo si nascondono dietro fronti spianate, sorrisi di circostanza e atteggiamenti superficialmente impeccabili. Si comincia un capitolo e si cerca di indovinare subito chi può aver pronunciato quella frase o pensato quella cattiveria, e poi si viene attirati nel gorgo delle vite dei protagonisti e si procede per cercare di capire come andrà a finire, se tutto esploderà, oppure se tutti rientreranno nei ranghi e la nebbia continuerà a coprire i contorni incerti di esistenze apparentemente ordinate.

Ci si appassiona alle vicende del giudice (Renato) e di sua moglie, per poi accorgerci che ci interessa moltissimo quello che è successo tra il medico (Vittorio) e la sua compagna e che forse è per questo che valeva la pena leggere il romanzo; e subito dopo, quando si torna a Valeria e a suo marito Fabrizio, viene da dire che è questa la storia che conta, e così via e così via.

Chiaro che, in tutto questo, il morto iniziale e le implicazioni giudiziarie o investigative passano presto in secondo piano, e diventano il pretesto letterario per scandagliare con dovizia di particolari, avvinghiamenti della trama, lentezza della narrazione e riflessioni più o meno amare l’esistenza di un gruppo borghese nel pieno del boom economico, che rimane però sullo sfondo, inavvertito, dei quattro giorni piovosi, umidi e nebbiosi necessari  a chiarirci le vite dei protagonisti, ma certo non a risolverle.

Michele Prisco
Una spirale di nebbia
Rizzoli, 1966, 329 pp.


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