Lezioni condivise 41 - Nos e sa gherra de s’Espuru
La storia è un labirinto infinito di vicende che a volte si intersecano e ti sorprendono con i loro sviluppi; ne è esempio quella che mi accingo a raccontare, già vista, ma di cui tratterò aspetti differenti, limitandomi naturalmente a seguire solo alcuni percorsi.
Ritorno ai Vespri siciliani. Essi non sono un accidenti, ma la conseguenza storica di un susseguirsi di accadimenti, uno dei casi del conflitto infinito tra potenti, cui ogni tanto, marginalmente, partecipava anche il popolo, ma non ancora con la coscienza di un riscatto.
Scomodiamo Federico Barbarossa (Federico III Hohenstaufen, duca di Svevia, che è anche Federico I, imperatore del Sacro Romano Impero di Germania [eredità dell’impero carolingio privato della Francia, noto anche come Primo Reich]), che combinò nel 1186 il matrimonio tra il figlio Enrico e Costanza d’Altavilla, normanna, o se preferite vichinga, unica erede del regno di Sicilia (che allora si estendeva fino a territori della Grecia e dell’Africa), di cui la sua famiglia si era impadronita sostituendosi agli arabi oltre un secolo prima.
Grazie a questo matrimonio, nel 1194, Enrico VI Hohenstaufen poté insediarsi stabilmente sul trono siciliano. Egli però morì improvvisamente, lasciando erede un bimbo di tre anni, quello che diventerà Federico II (era anche Federico VII di Svevia e Federico I di Sicilia), imperatore poeta. Nel 1250, quando egli morì, gli successe in Sicilia il figlio Manfredi, essendo impedito prima l’erede legittimo, il fratello Corrado, poi il nipote Corradino, infante.
Il regno di Sicilia era dunque saldamente in mano agli Hohenstaufen.
Stante l’annoso conflitto tra papato e impero (guelfi e ghibellini), gli svevi erano mal tollerati. Papa Clemente IV cercò qualcuno che si opponesse a Manfredi e alla fine lo trovò in Carlo d’Angiò (anonimo conte di una regione del nord-ovest della Francia). Questi avuta l’investitura papale, mosse verso sud e nel 1266, nella rocambolesca battaglia di Benevento, sconfisse Manfredi, che morì in battaglia, e poté occupare la Sicilia.
La discesa di Corradino fu inutile; egli sconfitto, fu decapitato a Napoli nel 1268.
Al momento dell’esecuzione era presente nella piazza, in incognito, Giovanni da Procida; si dice che egli raccolse il guanto di sfida che il giustiziato lanciò tra la folla poco prima di morire.
E’ lui ritenuto sia storicamente, sia dalla tradizione il fomentatore della guerra del vespro, dunque della rivolta anti-angioina, ed è diventato personaggio leggendario. Medico salernitano, nobile, legato alla dinastia tedesca, fu consigliere di Federico II, precettore del giovane Manfredi, col quale era presente alla disfatta di Benevento, ove fu costretto alla fuga. Visitò le corti di tutta Europa onde favorire il ritorno della dinastia sveva sui troni di Napoli e Sicilia.
Stette in Aragona al servizio del re Giacomo I e in seguito di suo figlio Pietro III che, avendo sposato Costanza di Hohenstaufen, era tra l’altro anche genero di Manfredi.
Il giudizio storico sulla sua figura è spesso controverso, inviso in particolare alla parte guelfa.
Avrebbe organizzato l’incidente fra l’angioino Drouet e la nobildonna Imelda (sua figlia), affinché scattasse la prima scintilla della guerra del Vespro, il 31 marzo 1282, lunedì di Pasqua, sul sagrato della Chiesa del Santo Spirito, a Palermo. Ella era giunta appositamente da Napoli.
La Sicilia fu liberata dai francesi e Pietro III d’Aragona poté occuparla.
In pochi anni, per guerre mosse più o meno arbitrariamente, matrimoni dinastici studiati a tavolino o altre evenienze, la geografia politica medievale fu costantemente in movimento e le forme di stato variegate.
Il Regno d’Aragona insieme ad altri costituiva un’aggregazione di stati, quella “Corona” di cui avrebbe fatto parte anche il Regno di Sardegna, che continuò tuttavia ad essere giuridicamente sovrano, anche se non in modo perfetto. E’ il caso di molte entità statuali di quel periodo. Con l’avvento di Pietro III fu il caso anche della Sicilia. Un unico capo di stato, in questo caso un Re, ma diverse sovranità giuridiche.
Nel caso della Corona d’Aragona, unione personale di stati, il Re aveva il possesso privato di ciascuno stato, ma ognuno continuava ad esistere come entità a se stante. In molti casi gli stati della Corona mantenevano proprie leggi, è il caso della Carta de Logu in Sardegna.
Lo stesso accadeva per il Regno di Sicilia e di Napoli, che pur sotto lo stesso Re, restavano due entità statuali distinte.
I vari regni della corona erano considerati un bene personale del Re e come tali venivano ceduti in eredità alla nascita di un erede, anche in seguito ai matrimoni combinati.
Il concetto di Corona dal punto di vista giuridico è qualcosa che sta tra l’odierna Federazione (es. USA, cittadini soggetti alle leggi federali) e Confederazione di stati (es. Comunità stati indipendenti [CSI], sorta sulle ceneri dell’URSS; ogni stato conserva la statualità perfetta; aggregazione di stati che continuano ad essere indipendenti).
Quando la morte di uno stato avviene per cessione forzata del potere, si parla di debellatio. E’ il caso degli stati creati in medio oriente in seguito alle Crociate o quelli creati in seguito a Jiad (guerra santa) dei musulmani, ma anche la fine dei Giudicati sardi.
Paradossalmente un sardo non dovrebbe avere a cuore più di tanto il Regno di Sardegna; per spiegarlo occorre fare sottili distinzioni di tempi storici e situazioni. In primo luogo occorre ribadire che il Regno di Sardegna fu un’invenzione, un arbitrio perpetrato da Bonifacio VIII, che ne investì (comprendendovi anche la Corsica) i Re aragonesi, incurante dei legittimi e attestati governi dell’isola. In questo senso non fu altro che l’usurpazione del diritto dei sardi al governo della propria terra. Precisato questo, occorre osservare che gli aragonesi e in seguito gli spagnoli ebbero un rispetto relativo dell’entità statuale autonoma sarda, estesero dei diritti alle città regie, facendo peraltro anche cose orribili… Eppure quando il Regno passò ai Savoia fu molto peggio, i sardi persero anche i diritti concessi dagli spagnoli, non si riunì più il parlamento, fatte salve le autoconvocazioni rivoluzionarie. Benché la statualità sarda continuasse ad esistere sulla carta (altrimenti i Savoia non sarebbero stati re), l’isola era trattata come la peggior colonia, super tassata, sfruttata, e proprio in quel clima maturarono le rivolte e l’odio per quei re; tanto più quando Napoleone occupò il Piemonte e il re fu costretto a risiedere nell’isola per quindici anni e si dovette pagare anche al suo sostentamento.
Come si arrivò alla fine dei Giudicati, i quattro regni sardi che garantirono alla Sardegna l’indipendenza per oltre cinque secoli (e molto di più nel caso dell’Arborea)? La fine dell’indipendenza della Sardegna è direttamente legata all’epilogo della guerra del Vespro siciliana.
L’eredità degli Hohenstaufen in Sicilia fu dilapidata da Giacomo II di Aragona, detto il Giusto (appellativo che lascia il tempo che trova), il quale con il trattato di Anagni del 12 giugno 1295, stipulato con Carlo II d’Angiò, restituì almeno sulla carta la Sicilia ai francesi (dunque alla chiesa), rinunciando ai Vespri, in cambio del ritiro della scomunica e della papale (!) licenza invadendi di Sardegna e Corsica, da cui ebbe origine appunto l’omonimo Regno.
Il trattato prevedeva anche l’unione di Giacomo II con Bianca d’Angiò figlia di Carlo II e sorella di Roberto d’Angiò ed il matrimonio di quest’ultimo con Iolanda d’Aragona, figlia di Pietro III e sorella di Giacomo stesso.
L’infeudazione del regno di Sardegna e Corsica avvenne nella Basilica di San Pietro a Roma il 4 aprile 1297. Giacomo II ricevette dalle mani di Bonifax la simbolica coppa d’oro che lo faceva, di nome, Dei gratia rex Sardiniae et Corsicae. L’atto era di tipo ligio, e specificava che il regno – non le isole fisiche – apparteneva alla chiesa che l’aveva istituito, ed era dato in perpetuo ai re della Corona di Aragona in cambio del giuramento di vassallaggio (che non intaccava minimamente le forme statuali, era solo un contratto).
Tra le altre condizioni si stabiliva che il regno non potesse essere mai diviso (regnum ipsum Sardiniae et Corsicae nullatenus dividatis) e che i suoi re fossero sempre gli stessi che regnavano in Aragona (quod unus et idem sit rex regni Aragonum et regni Sardiniae et Corsicae).
Il vicerè di Sicilia, Federico, fratello minore di Giacomo, amareggiato perché questi non aveva ottemperato al testamento di Alfonso III, rifiutò la pace e si schierò con i siciliani che, sentendosi traditi dal nuovo re Aragonese, lo dichiararono decaduto ed elessero Federico al trono di Sicilia nel 1295.
A questo punto Giacomo intervenne, a fianco degli Angioini, contro il fratello, con la sua flotta aragonese affiancata da quella napoletana, a Capo d’Orlando, nel luglio del 1299, Federico fu sconfitto, ma riuscì a salvarsi e continuò a resistere.
La guerra del Vespro terminò con la pace di Caltabellotta il 31 agosto del 1302. Essa salomonicamente prevedeva che Federico III mantenesse il potere in Sicilia, ma con il titolo di Re di Trinacria (quello di re di Sicilia era lasciato pro forma al re di Napoli) fino alla sua morte, dopo l’isola sarebbe dovuta tornare agli Angiò. Sanciva inoltre l’impegno che Federico sposasse Eleonora, sorella di Roberto d’Angiò e figlia di Carlo II.
I catalano-aragonesi sbarcarono in Sardegna nel 1323 non per occuparla, ma chiamati in aiuto dall’Arborea contro le colonie pisane nell’isola, così dopo 27 anni dall’istituzione del Regno di Sardegna, rimasto fino ad allora mero titolo onorario, la corona aragonese ebbe modo, grazie all’incauta richiesta arborense, di attuare la licenza invadendi della Sardegna.
Quelle che erano semplici colonie pisane vennero trasformate in stato dagli aragonesi, prima fra tutte Castel di Cagliari.
Nel 1347 salì al potere, nel Giudicato di Arborea, Mariano IV, in breve i buoni rapporti tra il giudice e il regno aragonese si deteriorarono. La continua espansione di questi causò la guerra, continuata nel 1376 da Ugone III e soprattutto da Eleonora, infine da Leonardo De Alagon, che resistette fino al 1478, dopodiché l’intera isola entrò a far parte del Regno di Sardegna e della Corona aragonese, perdendo la sua indipendenza, diventando un’altra entità statuale che manterrà la sua specialità fino al 1847 e il nome fino al 1861.
(Storia medioevale – 19.4.1996) MP