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Negli Anni - Capitolo I - Odori

Creato il 26 settembre 2012 da Laperonza

 

montegranaro, rocordi

Negli anni settanta Montegranaro era un’altra cosa, un’altra città. Ancora a metà strada tra il borgo rurale e la cittadina industriale, potevi respirare l’aria antica delle tradizioni e vedere le barricate degli operai a Santa Maria. La fortuna di avere vissuto quegli anni da fanciulli non è cosa da poco, perché ti dà dei ricordi dolci ma piuttosto precisi di un’epoca che non tornerà più.

La città stava esplodendo urbanisticamente e demograficamente con tutti i problemi che ciò poteva comportare. Contemporaneamente il cuore urbano, il centro storico, ancora pulsava di vita. Non c’erano ancora i supermercati: il primo vero supermarket, Comprameglio, sarebbe nato solo alla fine del decennio. Il negozio più grosso era quello di Pallocchetta a San Liborio o la Cooperativa in via Di Battista.

Nelle vie vecchie c’erano ancora tutte le botteghe storiche: Checco de Furchì in via Don Minzoni, Luzio e la sua merceria lì a fianco, salivi in via Garibaldi e incontravi la bottega di Ciro e Mimi, la macelleria di Sauro, ancora alimentare con il negozio che prima era di Tortulì e poi di Gianmario. Più su in via Garibaldi la merceria di Peppina de Scuccini, in via Solferino la mitica edicola di Marietta, la cantina di Campanà, elettrodomestici e casalinghi, udite udite, con Serafì de Vischeretto, un po’ di scale e c’era la sartoria (ora si direbbe atelier) di Ivo lo Muto, poi il forno di Americo, Otello Vischeretto e il suo multi-negozio-barberia per finire con gli alimentari di Nicò de Cesarina.

Odori, che ancora riesco a sentire, gli odori del baccalà, delle conserve, selle salamoie, quell’afrore di carta stampata dentro l’edicola, e i profumi di cucinato prima di pranzo o cena che ti avvisavano che era ora di rincasare.

E tanti bambini, ginocchia sbucciate sul selciato, vetri rotti dai palloni, improperi dei proprietari dei vetri, canestri per giocare a basket rudimentali e rimediati. E corse attaccati dietro il cassone dell’ape che veniva a portare le scarpe broccate a Matutì.

Si giocava per le strade in quegli anni, non c’erano i pedofili e se c’erano non ce lo sapevamo, né noi né i nostri genitori. Non c’erano le macchine a tirarti sotto: ne passavano due o tre al giorno e facevano un rumore tale che avevi tutto il tempo di scansarti. Ed essendoci poche macchine avevi pure un sacco di spazio per giocare. Lo spiazzaletto sotto l’ospedale vecchio, dove avevamo appeso un tabellone da basket fatto con quattro assacce fradice e un cerchio di ferro di non so quale provenienza, era sempre sgombro, al massimo c’era la 127 color kaki di Peppe Tarabelli.

C’era ancora l’ospedale nei primi anni, e in quel posto preciso c’era l’ospizio e la camera mortuaria, poi venne la scuola, poi i fantasmi del passato. Si giocava lì ma anche in ogni altro spiazzo ci fosse stato a disposizione. Quello davanti casa di Peccè era piccolo ma ottimo per giocare a pallone finche una pallonata non spaccò un vetro a Luzio che ci fece scappare tutti a gambe levate. Mi pare la tirò Paolo Luciani: io stavo in porta e, scarsissimo portiere, non parai per cui mi sentii terribilmente responsabile, sia per il goal subito che per il vetro infranto.

Le scuole vennero nell’ospedale vecchio verso il ’77, solo le quarte e quinte elementari. Credo che il primo ciclo a venirci fu il mio. Occupavamo parte del piano terra entrando dal portone di piazzale Giacomo Leopardi. Entravi e a sinistra c’erano le classi importate da San Liborio, mentre se andavi dritto trovavi prima l’aula del maestro Virgili, e in fondo a sinistra quella della Segatori (con dentro anche me) e quella di Luci. Mi pare di ricordare che i primi tempi ancora si sentiva odore di alcool e medicine, ma forse il ricordo non è preciso.

Le primi classi, invece, le feci alle scuole rosse. Posso dire che i miei primi ricordi precisi cominciano da lì, prima sono vaghi. L’asilo lo frequentai un giorno soltanto. Mio fratello era appena nato ed io ero in piena crisi da primogenito abbandonato, passato da principe a comprimario, per cui attaccai a capricci finché la mia iperprotettiva mamma non mi si riportò a casa a metà mattinata, per condannarmi ad una fanciullezza di mattinate solitarie. Ricordo però i giochi con Raffaellina Ramini, la nipote di Mimi, e Maria Francesca Manzetti, con la quale il rapporto non era dei migliori tanto che le staccai litigando un folto ciuffo di biondi capelli. Mio nonno era artigiano sotto casa, naturalmente faceva le scarpe (che altro?) e la porta della sua bottega si apriva di fronte a quella di Francesca. Praticamente era inevitabile che giocassimo insieme, ma non ci amavamo di sicuro.

I ricordi, come ho detto, sono vaghi. Mi torna in mente lo spazzino di quartiere. Il nome non me lo ricordo ma lo chiamavo Mago Zurlì per la sua incredibile somiglianza, almeno ai mie occhi, con Cino Tortorella. Facevo grandi chiacchierate con lui, e ne ricordo la grande umanità, specie quando, nelle mie mattinate solitarie, gli chiedevo di farmi compagnia. Cominciando ad andare a scuola a sei anni le cose migliorarono di molto.


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