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Neil Young – Le Noise

Creato il 06 novembre 2010 da Beppax
Neil Young – Le Noise

Quando un artista diventa un’istituzione, una leggenda vivente, generalmente ci si aspetta che si ritiri nel suo personale Olimpo o che magari continui a pubblicare lavori dignitosi ma sostanzialmente innocui per la gioia dei suoi accoliti. Dylan, dopo la sua età dell’oro, ha pubblicato più o meno un capolavoro per decennio (a proposito: mi sono perso quello degli anni 00) e tanti altri dischi altalenanti. La produzione di Neil Young negli ultimi anni (grossomodo da Broken Arrow in poi) non ha certo brillato. Dischi dignitosi, per carità, ma sembrava che ormai Young si volesse godere una meritata pensione strimpellando canzoni piacevoli ma poco impegnative da tutti i punti di vista. Finalmente pacificato, liberatosi dai vari demoni che hanno infestato i suoi anni artisticamente più intensi, si godeva il suo ruolo di padrino dell’alt-rock americano. Poi all’improvviso, come uno schiaffo in pieno viso, come una secchiata di acqua gelata, arriva Le Noise.

Il fatto che sia prodotto dal leggendario Daniel Lanois, in passato alle prese con gente del calibro di Dylan (Oh Mercy), U2, Peter Gabriel e Brian Eno, tanto per citarne qualcuno, potrebbe far pensare che si tratti di un lavoro dal suono “classico”, raffinato, magari pure un po’ “patinato”. Nulla di più distante dalla verità. Le Noise è un disco aspro, graffiante, che riprende le atmosfere brumose di Dead Man ma in forma canzone e che ti prende alla gola fin dalle prime note e non lascia scampo per tutti i 40 minuti scarsi della sua durata. 37 minuti e poco più. Non c’è un minuto di troppo, una nota in più, non ci sono riempitivi. Quello che Young deve dire lo dice, non ha bisogno di tanti giri di parole lui. Le Noise è uno sfogo a tratti amaro, a tratti riflessivo, a tratti entrambe le cose, come quando si guarda indietro e prova a fare un bilancio del suo passato, disincantato e mai nostalgico, nella autobiografica The Hitchhiker (la droga, la paranoia, la depressione). Ma quello che colpisce di più è il suono, il rumore di Le Noise. Fin dal primo distorto accordo che apre le danze: un colpo di fuzz gracchiante e cattivo. E poi quella voce altrettanto sgraziata e cinica ed evocativa. Walk with me è un invito, quasi una preghiera. Ma il tono è acre, quasi incazzato. Poi rumori, la voce che va e viene tra echi e feedback. Segue lo stesso sentiero la successiva Sign of Love: voce e chitarra distorta e una coda quasi psichedelica. Se fosse unplugged potrebbe essere una ballata molto dolce (When we go for a little walk, Out on the land, When we're just walkin' and holdin' hands...), ma ancora una volta interpretata con passione e dolore: il dolore di chi apprezza la pace perché ricorda bene la guerra. E a proposito di guerra, Love and War, una pausa acustica, è un momento di amaro raccoglimento, una riflessione sulla guerra e soprattutto sugli effetti della guerra su chi aspetta qualcuno che non tornerà (Daddy won’t come home again...). Angry World riprende la strada maestra: una splendida melodia nascosta in una selva di fuzz, un testo ancora una volta agrodolce che racconta del comune destino di fronte alla durezza della vita (It’s an angry world for the businessman and the fisherman...).

Come è accaduto per altri grandi capolavori “tardivi” di artisti ritenuti ormai non più all’apice della carriera (penso al Lou Reed dell’immenso “Magic and Loss” o al Dylan di “Blood on the Tracks”), “Le Noise” nasce dall’urgenza terapeutica di elaborare ed espellere un dolore profondo causato dalla perdita quasi contemporanea di due amici e compagni di strada (il chitarrista Ben Keith e il film maker Larry Johnson). Dolore, passione, rabbia, stanchezza sono tutti racchiusi nei 37 minuti di Le Noise.

"I lost some people I was travelling with me, I missed a soul in the old friendship".


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