Esce in edicola il 4 ottobre Adam Wild, la nuova serie d’avventura di casa Bonelli. Abbiamo chiesto a Gianfranco Manfredi in che modo ha lavorato alla sceneggiatura, quali collaborazioni ha cercato e perché l’opera rappresenta una novità nello scenario bonelliano.
Con un esordio impegnato (fu scrittore di una rivista militante – Re nudo – negli anni ’70, passò poi alla scrittura di canzoni che davano uno sguardo attento alla gioventù disincantata di quel periodo) alle spalle, Gianfranco Manfredi è una delle voci italiane più autorevoli degli anni della contestazione giovanile.
Dopo una considerevole esperienza nel mondo cinematografico (scrisse sceneggiature e interpretò alcune di esse), ha curato alcuni volumi sulla musica italiana e ha pubblicato una serie di libri di genere noir. Negli anni ‘90 è iniziata l’intensa attività di sceneggiatore di fumetti, dando alla luce personaggi memorabili come Gordon Link (editoriale Dardo) e Magico Vento (SBE). Nel 2005 ha realizzato, assieme al disegnatore Miguel Angel Repetto, un Maxi Tex intitolato La pista degli agguati e negli anni seguenti è entrato a far parte dello staff di autori di Tex. Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo Volto Nascosto, una miniserie di quattordici numeri, e Shanghai Devil, una miniserie di diciotto numeri che ne rappresenta la prosecuzione ideale, entrambe uscite sempre per la Sergio Bonelli Editore.
Il 4 ottobre esce Adam Wild, ultimo nato in casa Bonelli, una storia d’avventura ambientata in Africa: ci vuol presentare la sua ultima fatica?
E’ una classica serie d’Avventura ambientata nell’Africa subequatoriale alla fine del XIX secolo, quando alle esplorazioni geografiche cominciavano a sostituirsi quelle antropologiche, cioè nasceva una nuova attenzione allo studio delle popolazioni. Dalla natura agli esseri umani.
Ci parli della genesi dell’opera e dei motivi che l’hanno spinta a dar vita a un personaggio particolare come Adam.
Hanno pesato anche motivi personali, perché mio padre è stato recluso in un POW cioè in un campo di prigionia inglese, sotto il Kilimanjaro, per più di sei anni. Era un pittore. Da piccolo sono cresciuto in mezzo a disegni e quadri di ambientazione africana che hanno non poco contribuito a formare il mio immaginario. Nonostante fosse stato un prigioniero, mio padre credo abbia rimpianto per tutta la vita l’Africa. Affrontare con spirito positivo e persino sorridente delle esperienze di vita durissime è qualcosa di molto difficile, ma è una delle lezioni più profonde che io abbia ricevuto.
Il protagonista ha i lineamenti di un attore famoso negli anni ‘40-50, Errol Flynn. Come mai proprio lui? Che caratteristiche fisiche e caratteriali possiede il nuovo eroe bonelliano, e come mai si discosta da tutti i suoi predecessori?
Errol Flynn è stato il primo eroe d’avventura che io abbia amato da ragazzino. Il primo film che ho visto, in assoluto, è stato Le avventure di Robin Hood. Flynn non incarnava soltanto l’eroismo, ma la gioia di vivere. Era uno smiling hero, un eroe sorridente. Dopo aver raccontato molti personaggi dark, misteriosi, spesso turbati da insanabili contraddizioni interiori, sentivo un gran bisogno di raccontare un personaggio solare, estroverso, senza sensi di colpa e dalla simpatia (spero) contagiosa.
Adam è un eroe positivo, senza dubbio, ma non è un puro: nel primo numero uccide un avversario a mani nude e non si fa scrupoli a fare il doppio gioco con il suo ex nemico, ora alleato, e farlo arrestare. Adam assomiglia a Ned Ellis in questo suo modo d’agire, pur senza il tormento psicologico che accompagnava Magico Vento: è questa dunque la dimensione dell’eroe secondo Gianfranco Manfredi?
L’avventuriero va dritto allo scopo, senza troppi scrupoli morali e senza preoccuparsi di essere “politicamente corretto”. Lo scopo di Adam non è l’esplorazione fine a se stessa. Adam è un uomo libero che ama vivere tra uomini liberi. Dunque il suo primo obiettivo è liberare gli schiavi. Non è un Giustiziere, non è un Vendicatore, è un Liberatore. Spezza le catene. Il vero eroe, credo, è quello che salva e libera gli altri, non perché lo pagano, ma perché questo corrisponde al suo sentimento e alla sua filosofia di vita. E per liberare gli schiavi bisogna eliminare gli schiavisti, con qualsiasi mezzo. Se invece uno uccide i cattivi, ma poi se ne va senza liberare nessuno… magari sarà anche un Invincibile, ma non un eroe popolare, nel senso più autentico della parola. L’eroe popolare appartiene al popolo.
Oggi il canone dell’avventura bonelliano ha diverse declinazioni: dal classico di Tex e Zagor, all’innovazione di Orfani fino ad arrivare ora ad Adam Wild che sembra andare a collocarsi in quel vuoto mai colmato lasciato da Mister No. Questo nuovo personaggio è stato pensato per rivolgersi anche ai lettori cresciuti con Jerry Drake?
No, non ho pensato ad alcun modello precedente. Soltanto dopo aver scritto i primi due anni di storie, mi sono reso conto che certi scenari africani che avevo scelto per Adam, come ad esempio il Ngorongoro oppure il deserto del Kalahari erano stati anche scenari di alcune avventure africane di Jerry Drake. E così mi sono chiesto: chissà se ai lettori di Mister No Adam piacerà? E’ una semplice domanda. La risposta verrà dai lettori.
Durante il processo di scrittura aveva in mente un tipo di lettore ideale?
Per fortuna, siccome faccio questo lavoro da molti anni, non avevo il problema di scegliermi dei lettori, perché ne avevo già. Ce ne saranno altri e nuovi? Non lo so. Quando scrissi Magico Vento, dopo un po’ di numeri, scoprii con mia grande sorpresa che il 40% dei lettori che mi scrivevano erano donne. Credevo che alle donne il western non piacesse e dunque non avevo affatto pensato a loro. Il lettore ideale è quello che non ti saresti mai aspettato.
Qual è il suo metodo di lavoro? Che dimensione specifica ha voluto dare al racconto, e come si è preparato al riguardo?
Mi sono documentato, come faccio sempre. Un tempo si inventava con una certa disinvoltura perché le persone viaggiavano meno e dunque non conoscevano i posti e poi non c’erano centinaia di canali televisivi come oggi. Quando scrissi alcuni episodi di Nick Raider, un fumetto bonelliano ambientato a New York, mi resi conto leggendo gli episodi precedenti che le auto della polizia, le targhe, e molti altri dettagli (telefoni, maniglie delle porte) erano stati inventati “all’italiana” dai disegnatori. In quegli anni però usciva in televisione NYPD, una serie bellissima, che mostrava com’erano davvero le auto della polizia, per esempio. Tutti i lettori, anche quelli che non erano mai stati a New York potevano fare il confronto e questo costringeva tutti noi a essere più precisi.
Ci parli in particolare della scelta di “adottare” disegnatori quasi del tutto nuovi in casa Bonelli. Alcuni di provenienza serba, un paio di brasiliani, una schiera di giovanissimi italiani: c’è un’esigenza specifica, quella di svecchiare il tratto bonelliano
In Italia si tende a parlare anche troppo di chi i fumetti li scrive e si parla troppo poco dei disegnatori. Ma il fumetto è una forma di narrazione visiva. La cosa che conta di più sono i disegni. Un fumetto nuovo deve avere disegnatori nuovi. Non importa che età abbiano. Importa, per me, che abbiano un tratto molto personale perché di disegni standardizzati non ne posso più. Quando scrivo una storia mi piace corrispondere al tratto del disegnatore. Ovviamente questo non è immediato quando si lavora con qualcuno con cui non hai mai lavorato prima, bisogna darsi il tempo per conoscersi, però in Adam Wild è scattata da subito una sintonia, perché i disegnatori li ho scelti personalmente, non mi sono stati consigliati dalla casa editrice. Oggi, grazie alla rete, i contatti sono più facili e più diretti. Mi ha aiutato il fatto che i miei fumetti siano pubblicati in molti paesi esteri. Dunque quando ho contattato alcuni disegnatori che mi piacevano, ho scoperto che mi conoscevano già e questo ha facilitato le cose.
Passando una dimensione più grande rispetto ad Adam Wild, mi soffermerei sulle sue altre esperienze (sceneggiatore cinematografico, scrittore, cantautore) e le chiederei il suo rapporto con la parola. Quanto è importante avere una solida storia prima di poter dare forma ai volti o alle sequenze immaginate?
E’ pericolosissimo scrivere uno schema , scalettare le storie e poi andare punto per punto. Bisogna lasciarsi liberi MENTRE si scrive. Se un lettore capisce lo schema, addio sorpresa. Se mentre si scrive si riesce a sorprendere se stessi con delle soluzioni che non si erano previste al principio, sarà molto più facile sorprendere i lettori. In questo, la mia esperienza musicale è stata molto utile. Si compone un brano, magari a casa propria, ma è in sala di registrazione, insieme ai musicisti, che lo si realizza. Di troppa progettazione, di troppo calcolo, si muore. Escono cose fredde. Ed è stata molto utile per me anche l’esperienza cinematografica. Quasi tutti i registi con cui ho lavorato come sceneggiatore, mi riferivano loro visioni, delle immagini, delle situazioni o delle sequenze che avevano in mente. Il mio compito era quello di dare un senso narrativo a queste visioni.
Secondo lei, c’è una sorta di tradimento nel rendere graficamente visive le storie raccontate? Come vive uno scrittore
questo sdoppiamento della rappresentazione – testuale prima, visiva poi?
Ripeto: nessuno sdoppiamento. Unico criterio è che nel passaggio tra testo e disegno, la storia deve migliorare, non peggiorare. Perché non peggiori, chi scrive deve pensare per immagini e offrire occasioni e indicazioni visive, altrimenti il disegnatore si sente un esecutore passivo, non si diverte, non partecipa. Per lavorare bene bisogna essere contenti di lavorare e sentirsi parte in causa.
Per concludere, diamo un’occhiata al futuro di Manfredi: cosa prevede la sua agenda? Ha in cantiere altri progetti fumettistici?
A marzo uscirà (sempre con Bonelli) una mia miniserie in tre episodi, disegnata da Barbati e Ramella. Si intitola Coney Island ed è ambientata negli anni ‘20 nel grande parco di divertimenti. E’ un bizzarro mix tra gangsterismo e paranormale, perché il protagonista è un mago da palcoscenico che ha drammatiche esperienze extra-sensoriali. Abbiamo lavorato quattro anni su questa storia. L’ho scritta prima di Adam Wild. Ci ho travasato anche un po’ della mia esperienza nel mondo dello spettacolo, la grande varietà di persone che si incontrano, la stravaganza come stile di vita.
Intervista effettuata via mail in data 29/09/2014