Ok, confesso. Realmente ho qualche problema con I. e L.
Oggi, mentre andavo dalla mia miticissima edicolante, mentre calcolavo se sarei arrivata da casa mia all’edicola nei 7’02”, tempo di Don’t Drink The Water di Dave Matthews Band (e ci sono arrivata) pensavo anche a una frase che L., ieri, s’è lasciata scappare.
“Lucré se andiamo a Milano, mi raccomando, vestiti bene.”
Mi sono guardata.
Eskimo figo.
Jeans.
Cardigan e camicia alla Emily Dickinson.
Collana stramba a cinque punte “speriamo che porta bene” valenciana.
Quegli accostamenti “cosa dolce” – “cosa mascolina” che mi piaciono tanto.
Ringrazia che non ho gli Ugg oggi.
“Perchè scusami, di solito sono una zingara?”
“Ma no”, s’affretta a dire lei, “è per dirti che andiamo a una cosa figa, devi vestirti da figa”
“Cosa figa?! lo dici te, per me è lavoro” (sottotitolo: è ridere nel vedere il Circo Equestre d’Arte, noto per i personaggi paradossali che lo popolano, per le donne con labbra pompate, sessuomani, malati, feticisti, zoccole… ipocrisia liquida insomma, che se non ci stavo attenta, risucchiava anche me)
Insomma, cazziatone sul mio modo di vestire. Sulle creme che non uso. Sul grasso che non “smanco”.
Cazziatone con tanto di risposte annesse, preconfezionate, facili facili.
L. è specializzata nel pacchettino preconfezionato, la risposta sta tutta lì, semplice, chiara, piccola.
La vita è semplice. E’ tutta in quel Lucré detto mentre incassa la testa nelle spalle, pronta a farla uscire modello tartaruga carnivora pronta allo scatto per dirmi come fare per saldare fratture scomposte.
Mentre I. provava le scarpe giuste, per la serata giusta di domenica alla mitica galleria su Via Cavour, perché “c’è Mr V. deve assolutamente guardarmi”, io mi stavo facendo mente locale dei vestiti e pensavo… ma’sti’cazzi.
Improvvisamente, una specie d’onda si è formata, forte, una specie di Tsunami.
Improvvisamente, l’unica cosa a cui pensavo non ero più io, che stavo facendo lì, cosa stavo ascoltando. Mi sono sentita parte di qualcosa di più grande e nello stesso tempo estraniata da quel contesto, presente ma lontanissima.
Ho sentito una mancanza, forte, secca.
Ho percepito la stessa sensazione di inutilità dell’essere lì- credevo, ma era “mancanza di condivisione”, realmente – che ho avuto a Spoleto.
Non c’erano occhi a raccogliere i miei sguardi interrogativi. Mancavano mani, sorrisi, mancava in fondo tanto.
Mi sono sentita diversa.
E invece di crucciarmi di quella diversità, mi sono sentita fiera. Non ho i problemi che hanno le mie amiche. Non mi ammazzo di seghe mentali su un tipo che ho conosciuto perché il mio compagno mi ha obbligato a scoparmelo mentre lui si segava e soprattutto posso vivere serena. Non mi sto ad affaticare per rendere mia cugina splendida, non sto nemmeno a dannarmi per entrare saltellando in quel magicissimo mondo dove I. e L. vivono i loro ricordi quasi simbiotici. L. incalza I. nel raccontare dettagli, s’incastrano, coprono, spostano la linea temporale più in qua, più in là, raccontano, giocano, L. ride e poi ricorda “Lucré non te lo fare scappare” (appunto, lo scrivo solo sul blog, permetti? mi sento tanto Gossip Girl) lo ripete all’infinito “Lucré non te lo far scappare”, ancora, come se a me, realmente, interessassero sia i dettagli, sia il resto. Come se a me, adesso, premesse davvero partecipare a questo gioco, come se tutto fosse un “su, prepariamoci, potremmo scopare questa sera.”
Ho la testa lontana, ho la testa che urla, ho la testa che non riesce ad appassionarsi a questo.
Nel loro modo di “adorarmi” qualcosa non mi torna, è tutto molto molto dorato.
Voglio delle critiche spietate.
Solo in questo modo si può capire l’amore che la persona prova per te.