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Se proprio vogliamo usare delle etichette allora Silvano Agosti non può che essere collocato fra gli outsiders del cinema nostrano. Con una robusta formazione alle spalle (studia anche in Russia), questo regista bresciano (ma anche documentarista e poeta) esordisce nel ’67 con un film azzoppato dalla censura chiamato Il giardino delle delizie, 10 anni dopo le cose non vanno affatto meglio perché Nel più alto dei cieli viene immediatamente ritirato dal commercio e sequestrato per la bellezza di quasi 14 anni. Potrei dire che è stato un atto comprensibile, ma non ammissibile!, visto che qui non si tratta di satira o grottesco verso le istituzioni, ma di una dinamitazione totale nei confronti di tutto il Sistema. È uno di quei film impossibili che fa specie pensare, alla luce della produzione attuale, che sia stato fatto in Italia, e oltre che di impossibilità l’opera si carica di irripetibilità andando a configurarsi per il sottoscritto come una delle migliori pellicole del cinema bis italico, anche se forse essa non vi rientra appieno ma abbiamo deciso di usare delle etichette e allora facciamo finta di niente.
All’occhio clinico non sfuggiranno delle imprecisioni di metodo: i dialoghi sono pura ruggine e il montaggio è grezzo, per non dire grezzissimo nei raccordi tra una scena e l’altra, apparendo così sconnesso e spezzettato, tuttavia le difficoltà insite in un progetto del genere risultano davvero toste e richiedono molto coraggio, tanto che Erick Dowdle (Devil, 2010) e Vincenzo Natali (Cube, 1997) possono solo che dire “grazie” ad Agosti il quale, comunque, rispetto ai suoi colleghi ha a che fare all’interno dello spazio chiuso con un gruppo di persone molto più numeroso e che quindi ha richiesto uno studio di movimento sicuramente più complesso.
Concentrandoci sulle persone all’interno dell’ascensore scopriamo che esse rappresentano fedelmente varie classi sociali medio-alte; per cui abbiamo un politico, un insegnante, un intellettuale e un sindacalista, ma anche uomini di fede come suore e sacerdoti. La prospettiva è poi antropologicamente trasversale raffigurando persone di tutte le età, dall’infanzia con i due bambini, alla vecchiaia dei più anziani.
La panoramica a 360 gradi dimostra attraverso una gabbia drammatica che anche degli individui per così dire civilizzati di fronte a situazioni in cui la loro vita è messa a repentaglio smettono i panni dell’uomo moderno per tornare ai tempi di Neandertal o forse anche prima. Sorgono così gruppetti che sospettano gli uni degli altri, l’egoismo soppianta l’altruismo, l’Io prevale sul Noi, e Agosti esacerba questo crollo perverso tramite segmenti parossistici che mostrano omicidi, pedofilia, blasfemia e cannibalismo.
Eppure il senso del film non si esaurisce nel processo di imbarbarimento dei protagonisti, perché se si pensa alla collocazione dell’ascensore la metafora si amplia. Nel ventre della Chiesa Cattolica, e quindi nel cuore di colei che dovrebbe proteggere e liberare dal male, gli agnelli di un dio lontanissimo (l’ascensore sale all’infinito) si scannano a vicenda senza pietà. La critica acidissima sembra voler suggerire dell’inadeguatezza religiosa che di fronte al degrado morale si rifugia dietro a sterili massime proverbiali pronunciate dalla filodiffusione dell’ascensore.
Nel più alto dei cieli è perciò un film che ha tutti i limiti del mondo, ma che ciononostante squaderna con irriproducibile efficacia il nostro mondo limitato da falsi valori. E il finale che riconduce tutto alla realtà fa comprendere di come niente di quello che abbiamo visto sia successo, ma che sicuramente, come un avvertimento, sarebbe potuto accadere.
Una visione che lascia ferite profonde.
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