Anche gli ultimi giorni di gennaio erano trascorsi, inconsistenti come la scia di un petardo. Marcello percorreva il lungotevere in Sassia e le ombre della sera si allungavano malignamente su di lui. A un tratto si fermò, accostandosi alla spalletta, per cedere il passo a una signora che teneva al guinzaglio un cagnolino: un isterico Yorkshire Terrier. Quell’odioso mucchietto di peli unti e arruffati, si impuntò davanti a lui, fissandolo con occhi torvi e, scosso da un tremito convulso, cominciò a ringhiare mostrandogli i denti. Gli avrebbe dato una pedata, ma si limitò a fulminarlo con lo sguardo.
-Non si preoccupi, guardi che non morde mica!- disse la signora.
Avrebbe dato una pedata anche a lei, ma nonostante il cattivo umore rimaneva un gentiluomo; abbozzò un sorriso e le rispose: -Ma no, signora, non ho paura, anzi io adoro i cani!-
Una risposta idiota, lo sapeva benissimo, ma qualcosa doveva pur dire per togliersi di torno quei due animali. La signora dette un energico strattone al guinzaglio e il Terrier, uggiolando, si decise ad andarsene per la sua strada.
Macchinalmente, li seguì per un po’ con lo sguardo e il botolo, prima che la padrona se lo trascinasse dall’altro lato del lungotevere, si voltò, ringhiando ancor più rabbiosamente.
Affrettò il passo, in preda a una profonda inquietudine, col fermo proposito di rientrare in casa e di rimanervi sino all’indomani.
“Ma quale casa?” rifletté. “Quel buco dove sono andato a cacciarmi senza neanche avere i soldi per pagare la pigione?”
E si sentì come un naufrago approdato su un’isola deserta, dalla quale non poteva far altro che scrutare l’orizzonte con struggente nostalgia, in attesa che una vela riaccendesse in lui la speranza di un ritorno.
Il sole era appena tramontato e il freddo gli gelava le ossa.
“Anche il tempo ce l’ha con me, oggi. E’ proprio una giornata orribile!” pensò.
Non sapeva più cosa fare. Se ne rimase un po’ impalato davanti alla spalletta, coi pugni in tasca e la testa reclinata sul petto, e non riusciva a immaginare alcun luogo nel quale potesse trovare rifugio
“Ma sì, me ne vado a villa Borghese!” pensò all’improvviso e se ne meravigliò subito, perché quel posto non gli era mai piaciuto.
“Inutile chiedersi perché!” si rispose dirigendosi verso la fermata dei tassì. Si fece condurre sino al piazzale Napoleone I e da lì, lentamente e senza pensare a nulla, cominciò a inoltrarsi nel cuore della villa.
Imboccò a caso e con gli occhi bassi uno dei tanti vialetti. Sotto i suoi passi cadenzati, la ghiaietta crepitava con un ritmo ossessivo e ipnotico, che gli giungeva agli orecchi amplificato, come per l’effetto di una droga e si sovrapponeva al battito del suo cuore. Poi, cullato da quel ritmo, che si faceva sempre più morbido, cominciò pian piano a levitare tra le siepi sempreverdi, umide e basse, che sembravano protendersi verso di lui in un abbraccio carnale, finché non si sentì preso da uno stupore prenatale e l’universo si chiuse sopra di lui, avvolgendolo in un fluido tiepido e denso, nel quale egli galleggiava senza più peso.
Una lieve asperità del terreno lo rapì all’improvviso dal sogno. Il suo cuore gli precipitò nel petto da profondità siderali e Marcello provò, per un attimo, tutto il dolore dell’universo. Guardò in alto ed emise un urlo primordiale.
Una nebbia fitta era calata su villa Borghese, ed egli non vedeva intorno a sé che ombre dai contorni sfumati. Aveva perso l’orientamento e si sentiva pieno d’angoscia come accade, talvolta, quando ci si risveglia al buio, smemorati, e il nostro essere, per un attimo eterno, non riesce a concepire altro se non la consapevolezza di sé e l’orrore del nulla. Così, se esiste, dev’essere l’inferno.
In preda all’orgasmo, cominciò a brancolare nella nebbia, cercando un punto di riferimento e lo trovò in una luce sbiadita che pareva quella di un lampione. Con infinita cautela si diresse verso di essa. La raggiunse e, nel cono di luce lattiginosa che colava dall’alto, scorse una figura che gli voltava le spalle, avvolta in un mantello nero. Le si avvicinò, sin quasi a poterla toccare, e quella, lentamente, si volse. Esterrefatto, Marcello vide apparire dinnanzi ai suoi occhi il volto di un’orribile megera che lo fissò, con uno sguardo intenso e doloroso, sfumando nella nebbia.
Alle quattro del mattino si risvegliò nel suo letto, senza sapere come avesse fatto a tornarsene a casa. Aveva ancora impressa sulla retina l’immagine dell’orribile megera.
Accese la luce e si mise a sedere sul letto. Guardandosi attorno stupefatto, gli sembrò di vedere quella camera per la prima volta, anzi ebbe la sensazione che i suoi occhi si aprissero al mondo appena allora. Se ne stette così per un po’, incapace di formulare un pensiero o di eseguire un qualsiasi movimento. Poi, come emergendo da un’apnea dolorosa, trasse un respiro lunghissimo e profondo e la macchina del suo corpo si rimise in funzione, rientrando sotto il pieno controllo della mente e dei sensi.
Si alzò e, indossata la sua veste da camera, si diresse verso la cucina. Si preparò un caffè molto forte, sperando che quello l’avrebbe aiutato a liberarsi più rapidamente dall’angoscia che l’opprimeva, come quando, appena uscito da un incubo tremendo, si sentiva ancora addosso le mani artigliate dei suoi fantasmi, bramosi di ricondurlo per sempre nell’orrore del loro mondo onirico.
Prese a sorseggiare la sua bevanda e cercò di capire se quella della sera precedente fosse stata un’esperienza reale o soltanto una visione provocata dai suoi sensi eccitati. Gli rimaneva difficile credere che al mondo potesse esistere un essere dall’aspetto così spaventoso, ma se fosse stata vera la seconda ipotesi il fatto avrebbe avuto risvolti ancor più inquietanti. La cosa migliore era non porsi altre domande e cercare di dimenticare l’accaduto al più presto.
Ma non era facile e quell’immagine, come un oscuro presagio, avrebbe continuato a lungo a oscurare il suo orizzonte.
Federico Bernardini
Illustrazione: Villa Borghese, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:VillaBorgheseWaterClock.jpg