Professor Alberto Boemia. Il nome era scritto, in caratteri inglesi, su una lucidissima targa d’ottone nella quale, prima di sonare il campanello, si specchiò per aggiustarsi il nodo della cravatta. Gli aprì una vecchia domestica che, senza dargli il tempo di consegnarle il suo biglietto da visita, lo riverì con un profondo inchino, che fece scricchiolare le sue povere vertebre, minate dall’artrosi, dicendogli: -Si accomodi, dottor Cassiani, il professore l’attende-.
-Alberti!- le rispose stizzito. –Dottor Marcello Alberti!-
-Si accomodi, dottor Alberti- si corresse la vecchia senza fare neanche un plissé. –Il professore l’attende-.
Attraversarono un’ampia sala d’ingresso e poi un lungo e oscuro corridoio, sul quale si aprivano numerose porte e dove, in vecchi e polverosi scaffali, era stipata una quantità strabocchevole di libri. La domestica si fermò davanti a una delle porte e bussò leggermente poi, senza attendere risposta, entrò per annunciare al suo padrone l’arrivo del visitatore.
-Fallo accomodare!- le rispose e Marcello fu introdotto nello studio del professore. Si trovava nella più grande biblioteca privata che avesse mai visto ma non si meravigliò, anzi se l’aspettava, perché aveva ancora negli occhi l’enorme quantità di libri accatastati nel corridoio. Era quella una vera “arca di sapienza”, al cospetto della quale persino la sua adorata biblioteca gli appariva come ben povera cosa. Il professor Boemia amava i libri come e forse ancor più di lui e Marcello, che si era recato a quell’appuntamento senza grandi aspettative, pensò che forse, con un uomo di tal sorta, sarebbe stato possibile trovare un accordo.
Il professore era in fondo allo studio, si alzò dalla sua poltrona e, dopo aver aggirato un’enorme scrivania, sulla quale era sparpagliata un’infinità di carte, gli si fece incontro tendendogli la mano e con un sorriso affabile sulle labbra.
-Benvenuto, dottor Cassiani, sono lieto di fare la sua conoscenza!-
-Anch’io, professore- rispose stringendogli la mano. –Ma, per favore non mi chiami Cassiani, il mio nome è Alberti, dottor Marcello Alberti!- Nel pronunciare quelle parole, si augurò che egli precipitasse nel più profondo dell’inferno e che ad accoglierlo trovasse l’anima dannata di Mario, l’oste, che l’avrebbe costretto a nutrirsi in eterno di piovre gigantesche.
-Ah…mi scusi, dottor Alberti, certo…Cassiani è il cognome di Livia, mi scusi-. E almeno, al contrario della sua imperturbabile fantesca, mostrò un lieve segno d’imbarazzo.
Nonostante ciò e nonostante la sua imponente biblioteca, quella imperdonabile gaffe glielo rese irrimediabilmente antipatico e il fatto che avesse chiamato familiarmente Livia per nome acuì il suo senso di repulsione.
Mentre si guardava attorno con malcelato imbarazzo, il suo sguardo si soffermò su un tavolino con una scacchiera intarsiata, sulla quale, in ordine perfetto, erano disposti dei bei pezzi di modello Staunton.
-Ah…gli scacchi!- esclamò il professore. –Anche a me piacciono molto, ma sono solo un modesto dilettante-.
“Speriamo che non mi chieda di giocare!” pensò Marcello sempre più irritato. Era un esperto scacchista e detestava i dilettanti. Soprattutto da quando aveva abbandonato l’attività agonistica e l’allenamento, evitava accuratamente di giocare con loro, perché l’idea di una possibile sconfitta era per lui insopportabile.
-Ma non siamo qui per parlare di scacchi- continuò il professore. –Livia mi ha parlato molto bene di lei-.
“Ma perché continua a chiamarla Livia?” si domandò, reprimendo l’impulso di chiedergli conto di tanta familiarità. E poi, con estrema freddezza, gli rispose: -Ne sono lieto, professor Boemia-.
-Ma si sieda- soggiunse lui, indicandogli la poltrona di cuoio borchiato che si trovava di fronte alla sua monumentale scrivania e che gli evocò lo spettro del colonnello.
Si sedettero. La persona che gli stava di fronte, benché l’avesse già vista in televisione e ritratta sui giornali, gli apparve di aspetto ancor più ordinario di quanto si aspettasse: il professor Boemia era un uomo sui settant’anni, né alto né basso, né grasso né magro, coi capelli candidi e corti, tagliati alla Mascagni e il volto glabro. Indossava un abito grigio, a doppio petto, un po’ liso ma di buon taglio e, all’occhiello, la Legion d’Onore. Se non fosse stato per quella e per il luogo nel quale si trovavano, l’avrebbe preso per un piccolo, oscuro burocrate. Trovarsi di fronte a un uomo dall’aspetto così comune e in una posizione di evidente inferiorità, offendeva l’orgoglioso Marcello, che si sentiva un po’ come un cavallo alla fiera del bestiame, in attesa che un buttero gli guardasse in bocca.
-Dunque lei è giornalista-.
-Sì, sono iscritto all’Ordine da venticinque anni- gli rispose, amaramente pentito di essersi recato a quell’appuntamento. Lo consolava l’idea che poi sarebbe andato a prendere Livia e l’avrebbe portata alla Taverna.
-Dove scrive?-
Quella domanda, benché se l’aspettasse, lo colpì come una scudisciata al volto. Nominò due o tre testate, sperando che non risultassero ignote al suo inquisitore.
-Bene!- rispose lui seccamente. –E…di cosa si occupa?-
Anche quella era una domanda prevista, ma si abbatté su di lui con intensità non inferiore alla precedente. Occorreva dare una risposta precisa, in qualche modo rassicurante sulle sue capacità professionali. Disse un paio di argomenti, quelli nei quali pensava di cavarsela meglio.
-Mah!- rispose il professore aggrottando le sopraciglia. –Vediamo un po’ cosa si può fare-.
A quel punto ebbe l’impressione che le sue quotazioni avessero toccato il fondo. Ma era già tutto previsto: non avrebbe mai dovuto accettare di sottoporsi a quel giudizio sommario. A quella maledetta rivista, che tutti nominavano con gran deferenza ma quasi nessuno leggeva: tirava in tutto non più di duemila copie, si collaborava esclusivamente su invito e la cosa era considerata un grande onore oltre che un inequivocabile segno di successo. La sua condizione di postulante lo esponeva alla più cocente delle umiliazioni e Marcello pregò tutti gli dei dell’Olimpo affinché lo liberassero al più presto da quella situazione incresciosa.
-Mi è venuta un’idea!- disse all’improvviso il professore, puntando l’indice della mano destra verso il soffitto e fissando la scacchiera in modo inquietante. –Lei, oltre ad essere giornalista e scrittore è anche un esperto di scacchi, come mi dice Livia. Sarebbe interessante pubblicare una serie di articoli nei quali si mettessero in evidenza i rapporti fra il giuoco e la letteratura, le arti figurative, la musica e via discorrendo. Che gliene pare?-
Colto di sorpresa, fu costretto ad ammettere che non si trattava di una cattiva idea e, dopo avere un po’ riflettuto, gli rispose: -Bene, vedrò cosa posso fare!-
-Ha idea di come si può cominciare?-
-Innanzi tutto credo che convenga occuparsi dei rapporti fra gli scacchi e la letteratura, dato il carattere della rivista, gli esempi non mancano. Cosa ne dice della “Partita a scacchi” di Giocosa?-
-E’ un’idea formidabile! sono d’accordo con lei!- Gli rispose il professore con un’enfasi che lo lasciò interdetto.
-Bene, ci lavori sopra e mi faccia avere il pezzo entro un paio di settimane…al massimo dieci cartelle. Mi auguro che possa essere l’inizio di un lungo e proficuo rapporto di collaborazione-.
-Me lo auguro anch’io- gli rispose, benché fosse ancora confuso e incerto sul da farsi.
-Come lei sa- aggiunse Boemia con un lampo di fierezza negli occhi, -Nuovi Segni è la più autorevole rivista letteraria nazionale e i nostri collaboratori sono la crema dell’ambiente. Entrarne a far parte sarà per lei un’ottima occasione per farsi conoscere e apprezzare-.
-Speriamo!- gli rispose tanto per dire qualcosa, ma lui, alla crema, era stato sempre allergico e soprattutto a quella acida che grondava dalle pagine di Nuovi Segni.
Ciò detto, i due si alzarono dalle loro poltrone e si salutarono cordialmente. Il professore l’accompagnò fino alla porta e, prima del congedo definitivo, lo pregò di portare i suoi saluti a Livia.
“Ma quali saluti!” pensò Marcello. “Mi dovrà spiegare, piuttosto, come mai è così intima di questo rudere”.
Una volta all’aperto, si sentì come liberato da un incubo. La decisione che doveva prendere non era facile: accettare la proposta di Boemia, a patto che la cosa andasse a buon fine, equivaleva a prostituirsi, ma l’aveva già fatto per molto meno e non mancavano certo gli illustri precedenti, come Montale che, non appena assunto dal Corriere come critico teatrale, ammise senza falsi pudori di aver venduto il culo per mille lire al mese. Ma tali giustificazioni sarebbero state compatibili col solenne impegno da poco assunto con se stesso? ed era certo di essere uscito indenne dall’incontro con Boemia? Ebbe la spiacevole sensazione che neri e minacciosi nembi si addensassero sul suo futuro.
Montò in macchina e, sempre rimuginando i suoi cupi pensieri, si avviò verso Trastevere.
Quando arrivò a casa, Livia era già tornata dal lavoro. Lo salutò come al solito e poi gli sorrise, con un sorriso che le accese il volto come un sole.
-Com’è andata?- domandò.
-Mi ami?- le rispose Marcello.
-Sì, tanto!- disse lei gettandogli le braccia al collo e la vita gli apparve d’improvviso così bella, come mai prima di allora.
Federico Bernardini
Illustrazione: “il topo da biblioteca” (Carl Spitzweg – 1850 circa), fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Carl_Spitzweg_021.jpg