GM: Un verso di Michel Houellebecq recita: La possibilità di vivere / comincia nello sguardo dell’altro. E vorrei iniziare da queste prime parole per isolare e determinare la parola che ci farà compagnia in questo incontro: il silenzio, lo ‘spazio’ di attesa che ci separa e ci unisce dallo sguardo dell’altro. Prendo poi alcune altre parole da Gli esordi, di Antonio Moresco. Scelgo la prima manciata di sillabe con cui inizia il romanzo: Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio. Due tensioni opposte: l’alterità e l’incontro con sé stessi attraverso il silenzio. Cosa accade, per te, dall’incontro di queste due traiettorie? Ammesso che siano riducibili ad un orizzonte di attesa e di azione.
EM: L’incipit de Gli esordi è uno dei più straordinari che abbia mai letto. E a proposito di alterità c’è la famosa frase ‘Io è un Altro’, scritta da uno che poco tempo dopo si è gettato a capofitto nel silenzio… Credo occorra distinguere fra silenzio e silenzio. C’è un silenzio annichilente dentro cui si perde ogni facoltà creativa (Lord Chandos) e c’è un silenzio mistico, “santo” direi, quello di San Giovanni della Croce, quello cui fa riferimento Moresco. Per me il problema del silenzio incombe sempre, è il ciglio d’un burrone molto prossimo, il vero volto della pagina bianca (la tinta di Moby Dick, il cui autore sprofondò in un silenzio narrativo di decenni) e potrei tradurlo così: perché invece di tacere scrivo?
GM: Ci sono poi due aggettivi che si rincorrono in più testi di Eugenio Borgna (specie nell’ultimo, dedicato alla fragilità): sistolico e diastolico. Il momento della contrazione, del silenzio, dell’accumulo, e il momento del rilascio, dell’apertura (del chaos, si sarebbe detto nel greco antico). Il silenzio come spazio da abitare, non come condanna. Il silenzio come momento di ascolto, come primo atto di significazione o prima linea di costruzione. I lunghi silenzi di costruzione delle prime tre raccolte di Montale, lontane e vicine tra loro di circa diciassette anni l’una dall’altra. C’è poi il silenzio in cui si sono chiusi due irregolari, tra i maggiori dell’Ottocento francese e del primo Novecento italiano: Rimbaud, appunto, e Campana.
EM: È difficile, credo, che il silenzio di uno scrittore (e cioè di uno che mette al centro della propria vita la parola) corrisponda a saggezza. In genere vuol dire difficoltà, dubbio, repulsione o nella migliore delle ipotesi attesa… attesa di tempi migliori. Conrad lasciò da parte Il salvataggio, uno dei suoi capolavori, per vent’anni – e non fu senza gran sofferenza, come lui stesso racconta. Quanto a Campana e Rimbaud, distinguerei così: in Campana si fa sempre più evidente, nel tempo, l’aggravarsi d’un disagio psichico che sfocerà nella follia; in Rimbaud accade invece un fenomeno più raro: un sopravvenuto disinteresse nei confronti della scrittura, un disinteresse che non ha nulla di eroico o studiato e che dunque risulta ancora più scandaloso. Potremmo affermare che l’uomo baciato dal talento verbale più assoluto è anche l’uomo che prima e più d’ogni altro tace. Lui non è pazzo, attenzione; lui è lucidamente disgustato, disilluso, stufo.
GM: Di nuovo Montale, in uno dei suo testi dei diari, in un sussulto gnomico (un sussulto riuscito, bisogna aggiungere) ha scritto dei “due veli dell’impronunciabile”. A queste quattro parole vorrei aggiungere un passaggio dalla riflessione che pochi mesi fa Francesco Giusti ha scritto nel suo Tornare al silenzio: discorso lirico, soggettività e desoggettivizzazione, pubblicato nella rivista Between. Nel parafrasare Carlo Sini, Giusti scrive: “l’ideale può funzionare come nucleo fondativo proprio perché irrealizzabile (in un atto definitivo) e quindi inesauribile (come pratica creativa)”. A me pare che questo ideale (e cosa è l’ideale se non il rovescio di un trauma fondativo?) sia accostabile al silenzio.
EM: È come in una storia d’amore, no? Possiamo idealizzare una persona senza alcun freno finché non la conosciamo, finché non diventa una creatura in carne e ossa che profuma ma anche puzza, ama ma anche odia. Tutto ciò che è davvero creativo è pure – per fortuna – irrealizzabile; ovvero se ne realizza solo una minima parte, in rari casi una discreta parte. L’Amleto, I fratelli Karamazov o Moby Dick non sono che pallide eco dello spunto iniziale, che a propria volta proviene da chissà quale oscura e fonda risonanza interiore, fangosa, assurda, remota… A me piace molto questa sospensione; del resto la nostra stessa vita è una continua sospensione, non solo perché in qualsiasi momento può finire ma soprattutto perché sta sospesa fra un prima e un dopo assolutamente ignoti. Per tornare ai due veli di Montale: è impronunciabile la morte, d’accordo, ma forse ancor più lo è la vita.