Foto di Keven Law
Osservando con attenzione e tenendo le antenne della propria sensibilità ben sintonizzate si possono captare dettagli interessanti anche in una scena apparentemente priva di originalità. Ne ho un esempio proprio qui davanti a me, in questo ristorante all'aperto. Quella sua solita sequenza di mosse studiate ma eseguite in fretta e con approssimazione, in maniera istintiva, come una lepre che sfugge a un branco di lupi: scuote lo sgabello, china la testa, sgrana gli occhi, dà un colpo col panno umido a un angolo del tavolo di plastica. E' il suo messaggio in codice per il cliente indeciso, blandamente criptato: "mangia da noi, siediti qui, non continuare a cercare, passando oltre, verso il prossimo ristorante della fila immensa che corre lungo tutta Jalan Alor. Resta, vedi come ti sistemo lo sgabello e mi assicuro che il tuo tavolo sia lindo?"Messaggio che potrebbe essere facilmente frainteso, visto che il cliente potrebbe notare le macchie di unto sullo straccio e pensare "ma se ora hai bisogno di pulirlo quel tavolo significa che prima era sporco, e in che condizioni sarà il resto della superficie (la sua parte più estesa) che non hai ancora strofinato: sporca perché non l'hai pulita o pulita perché lo strofinaccio sozzo non ci ancora è passato sopra?" E magari deciderà di andarsene, per scoprire che il prossimo locale non è certo meglio di questo. Anzi, a conti fatti, essendo ubicato all'inizio della via, questo è forse il migliore, se non altro perché fermandoti qui ti risparmi inutili metri di caos e scocciature, ed è proprio per questo che da qualche anno quando sono a Kuala Lumpur e vengo a mangiare in questa zona scelgo senza nemmeno pensarci.
Ma questo bambolotto, questo peluche, questo cucciolo di procione è davvero irresistibile: dolcissimo, commovente, fa tenerezza e un po' pena. Con quella faccia scura, lo sguardo guizzante, terrorizzato, che sgorga da quegli occhietti da cerbiatto braccato, i movimenti scattanti e il broncio implorante.
Non si può nemmeno chiamarlo cameriere, perché...beh semplicemente perché non lo è. E' qui per fare soltanto quello che sta facendo ora, e che fa ogni giorno: una rete che il proprietario getta in strada per accalappiare il maggior numero di passanti in cerca di un posto per mangiare qualcosa di semplice, genuino e a buon mercato. E magari per farsi pure una birra all'aperto. Lui è qui per far finta di sistemare il tavolo e aprire un menu dalle pagine plastificate e unte davanti ai clienti. Per poi fuggire, prima che qualcuno gli faccia una domanda a cui non saprebbe rispondere, lasciando che i camerieri, quelli veri, che parlano inglese, malese, mandarino e altri tre o quattro dialetti cinesi, vengano a occuparsene.
Perché lui è solo un povero immigrato, probabilmente birmano, come i tanti che arrivano qui e in altri paesi dell'area alla ricerca di una vita migliore e che, almeno per qualche anno, trascorrono trenta giorni al mese scuotendo sgabelli e strofinando tavoli, lavando cessi, trasportando secchi, spaccando strade e rovistando tra la spazzatura. Qualcuno farà fortuna, perché ha i soldi per lanciarsi in qualche impresa o l'abilità di farsi strada a spallate tra le fronde di quella giungla di opportunità, corruzione, anarchia organizzata, energia, ottimismo e spinta inerziale che è al giorno d'oggi gran parte dell'estremo oriente. Altri invece se ne torneranno a casa, ma non a mani vuote, perché il gruzzoletto di valuta pregiata che avranno accumulato qui, nel loro paese varrà come un piccolo tesoro. In fin dei conti è quella che in inglese si chiama una situazione win-win. Comunque vada, vinci sempre. Soprattutto se sei partito da zero.