Abbiamo passato il confine verso mezzanotte. Alla frontiera, un posto sperduto e mal illuminato, ci hanno controllato sommariamente i documenti. Tutto in regola.
Oltre la sbarra, siamo entrati nel buio della notte messicana. Immensa.
“Da qui, altri 300 chilometri di strade malmesse – ha detto Rafael. Io ho rabbrividito. Per la stanchezza, la scomodità, l’inquietudine dell’ignoto.
“Dobbiamo dormire qualche ora – ha detto ancora Rafael, e si è girato per farmi una carezza sulla guancia.
Ci siamo fermati nel primo centro abitato, dopo quasi un’ora di strada sconnessa in mezzo a un mare di tenebre che profumavano di erba secca e altri odori sconosciuti.
C’era un posto per mangiare, con ancora qualche cliente e della musica sudamericana sotto lampadine multicolori e impolverate. Giusto di fronte c’era anche un motel, modesto e un po’ scrostato. Ci siamo buttati sul letto vestiti e siamo sprofondati nel sonno.
Sono entrati in camera verso le sei di mattina: erano tre uomini in divisa, con stivali sporchi e rumorosi. Siamo balzati su di soprassalto, senza capire.
Quello che comandava ha chiesto con durezza:
“Rafael Velasco?”
Rafael ha detto “È il mio nome” e non ha fatto in tempo ad aggiungere altro perché lo hanno tirato giù dal letto e se lo sono portato via. Lui era incredulo, sbalordito ma cercava di rassicurarmi dicendomi che era un equivoco, che presto si sarebbe chiarito tutto, che stessi tranquilla. Le ultime raccomandazioni le ho raccolte già in strada, sul marciapiede, mentre lo caricavano rapidamente su una camionetta della polizia e partivano.
Il gestore del motel non sembrava scosso. L’ho guardato con mille domande impazzite negli occhi, e lui si è limitato a chiedere: “Cittadina americana?” e ha scrollato le spalle, dando a intendere che da quelle parti succedono cose che gli stranieri non possono capire. Poi mi ha allungato una tazza di caffè, insistendo che era compresa nel prezzo della stanza, e questo è stato tutto quello che ha fatto per me.
Ho cercato informazioni dai passanti per raggiungere la stazione di polizia. Il mio scarso spagnolo contro il loro pessimo inglese. In ogni caso, è servito a poco: al comando, mi hanno tenuta sulla porta, senza rispondere alle mie domande né darmi spiegazioni.
“Può dirmi almeno perché lo avete arrestato? È cittadino messicano, non ha fatto niente di male”.
“Lei è moglie? Sorella? Parente?”
“Siamo venuti in Messico per sposarci.”
“Allora non posso dirle niente”.
“Perché?”
“È il regolamento”.
“E non posso nemmeno vederlo, cinque minuti soltanto?”
“Nessuno può vederlo finché non lo vede l’avvocato”.
“Quale avvocato? Rafael non ha un avvocato”.
“L’avvocato d’ufficio”.
“E quando viene, l’avvocato d’ufficio?”
“Quando sarà libero. Non è in città. Viene quando può. Una volta la settimana, una volta al mese, dipende.”
“Come faccio a sapere quando verrà, come faccio ad avere notizie?”
“Non è parente. Non può avere notizie. Provi domani, o un altro giorno. È il regolamento”.
Stavamo nel Maine. Io tenevo i bambini di una famiglia benestante, Rafael puliva la piscina. La signora ci ha licenziati quando ha scoperto che dormivamo insieme. Siamo venuti in Messico per sposarci. Rafael parlava di una grande festa con tutta la famiglia, diceva che sua madre mi avrebbe prestato il suo vecchio abito da sposa. Io non volevo tutto questo. Mi bastava Rafael. Ora penso che se ci fossimo sposati da un giudice di pace lungo la strada sarebbe stato meglio, perché adesso avrei il diritto di stargli vicina anche se è in prigione.
La prima sera sono tornata al motel stanchissima e da sola, dopo aver girato per strade che non riuscivo più a distinguere e a memorizzare, tentando più volte di tornare nei pressi della stazione di polizia con la speranza che fosse cambiato qualcosa.
Mi sono persa più volte, poi ho riconosciuto il motel dall’insegna illuminata: una pin up di neon blu elettrico che si staglia fluorescente contro il blu più denso del cielo notturno. La sua luce sguaiata e fredda mi entra nella stanza e si distende sulla metà vuota del mio letto. Il bagliore blu si irradia sulle pareti, sullo specchio, sulle mattonelle sbeccate del pavimento. Rende fosforescente la sacca dei vestiti di Rafael rimasta aperta e abbandonata accanto all’armadio. Mi guardo le mani nel buio, e sono blu. Ho mangiato qualcosa in camera, al buio, ed era blu. Non il blu delle piscine, né quello degli occhi dei tre bambini del Maine. Piuttosto il blu di un grottesco obitorio, o di un laboratorio di quelli dove studiano virus letali, o materiali radioattivi. Il blu falso e freddo delle navette spaziali. Il blu osceno del pesce al fosforo. Nulla di gaio, in quella luminescenza submarina. Nulla di rasserenante, nulla che aiuti a dormire. Si spegne all’alba, come evaporata in cielo, e la pin up diventa invisibile mentre per strada cominciano a passare camion, motociclette, i rumori della nuova giornata.
Vado alla stazione di polizia ogni giorno, da due settimane. Forse tre. Forse un mese. O una vita.
Cittadina americana.
Non è parente.
L’avvocato d’ufficio non si è ancora fatto vivo.
Non è consentito lasciare messaggi, né pacchi.
Non è moglie, né sorella.
Non ha diritto ad avere notizie.
Non insista.
È il regolamento.
Lavo le mie cose nel lavandino. A Rafael non mi permettono nemmeno di portare un po’ di biancheria. Ho trovato con grande fatica il numero di telefono del consolato americano, ma dicono che sono affari interni e loro tutelano solo i diritti dei cittadini americani. Si offrono tutt’al più di facilitare il mio rientro negli Stati Uniti, se voglio. È il regolamento.
La pin up mi aspetta tutte le sere. Ormai credo di aver capito che in fondo è una brava ragazza, forse finita male per colpa di qualcun altro. Una brava ragazza ingenua come me. La notte mi copre di blu, stende su di me il lenzuolo blu della sua e mia insonnia. Penso che siamo sole tutte e due, e che non sappiamo più cosa stiamo aspettando da tanto, tanto tempo. Perché qui i giorni passano e non succede niente.
E io sto finendo i soldi.
Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:
Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)