Su Giulio Andreotti si è detto di tutto in questi giorni, ma mi pare che con la sua morte siano andate a ridimensionarsi notevolmente le estreme figure retoriche che in vita l’hanno rappresentato come genio del male o grande statista, e in mezzo, d’un tratto, s’è fatto spazio per un ritratto assai più rispondente alla povera realtà dei fatti: era un mediocre di gran successo che ha incarnato i peggiori vizi del paese, al mero scopo di durare, per il mero piacere di durare. Ciò non toglie nulla alla sua grandezza, sia chiaro, ma la ridefinisce, e per certi versi – finalmente – la depersonalizza: Giulio Andreotti non era un mistero, tanto meno era un uomo misterioso. Forse anche i tanti misteri, di cui per anni e anni si è ritenuto fosse depositario, altro non erano che dettagli irrilevanti: anche se fossero liberati dalla millanteria in cui egli li ha fatti diventare segreti di stato, quasi certamente non spiegherebbero molto. Direi che Giulio Andreotti fu capace di entrare nelle narrazioni di comodo che un popolo di merda veniva costruendo nel corso di lunghi decenni per trovare consolazione alle sue impotenze e alle sue viltà, e fu capace di entrarvi per andare a interpretare il ruolo che gli assicurasse il dover essere necessario a spiegarle o addirittura a giustificarle. Più che accanto a De Gasperi o a Moro, andrebbe messo accanto a Mike Bongiorno e ad Alberto Sordi. Più che accanto a Machiavelli, sta bene accanto a Guicciardini. Più del tragico gesuita che sa quanto il male possa tornar utile alla Provvidenza per realizzare il bene, era il salesiano intrallazzone che sa cavar sugo dalla pietra pomice.
Non mi pare sia stata segnalata la freddezza con la quale la sua morte è stata accolta da Avvenire e da L’Osservatore Romano: più algidi di Wikipedia, neanche un cenno – neppure di sponda – alle sue lunghe ed intime frequentazioni con cinque o sei pontefici e due o tre dozzine di cardinali. Come imbarazzati a farsi vedere ai funerali. Andreotti e il Vaticano si sono serviti a vicenda al massimo, ma adesso è meglio dimenticare, far finta si trattasse di cortesie. Faranno santi La Pira, De Gasperi, Moro, ma Andreotti, che fu il più servile, risulterà in futuro come la più inservibile memoria di fedeltà agli interessi vaticani. Giulio Andreotti si è andato nascondendo sempre più nell’immagine che era necessaria ai suoi pochi complici e ai suoi tanti avversari, a quanti lo temevano e a quanti lo ammiravano, fino a diventare vivo solo nelle tante caricature, macabre o farsesche, che gli insufflavano vita. Il vero Giulio Andreotti era quello che Leo Longanesi ritraeva nei primi anni ’50: «Quella di un romano non si può mai chiamare vigliaccheria. I romani la sanno lunga sul modo di servire i padroni e, nello stesso tempo, i propri interessi e usano della loro apparente fierezza per far sembrare la viltà solo un adattamento. Loro si adattano a mille situazioni diverse e, per giustificarsi, attribuiscono ogni sbracata al loro cinismo, o meglio, alla loro indifferente superiorità secolare, di cui perfino Mussolini ha fatto le spese. Andreotti possiede questa specie di vigliaccheria e si adatterà, glielo dico io, quando sarà il momento giusto; si adatterà pur di non perdere niente, pur di restare. Ma lo farà con garbo perché è un giovanotto garbato. Non è un tipo da gesti clamorosi o volgari. È prete». Basta intendere per «garbo» l’affabilità di chi corteggia le altrui debolezze facendosene campione, e penso siamo alla migliore messa a fuoco di un personaggio che non ebbe mai bisogno di essere persona. Giulio Andreotti non conteneva alcun enigma: era anaffettività, pusillanimità, mediocrità e vanità, ma astratte da un quadro clinico o da un romanzo di formazione. Giulio Andreotti non si era venduto l’anima al Diavolo, se n’era sbarazzato a gratis perché gli dava impaccio.Magazine Società
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