Ieri, un magnifico sabato di inizio marzo. Il sole tiepido che accarezzava i cappotti mitigava l’aria ancora un po’ frizzante e ricordava che la primavera è ormai alle porte.
Era davvero piacevole passeggiare per le vie di Brescia annusando il sano profumo di neve che qualche refolo di vento trasportava dalle montagne circostanti!
Nel pomeriggio il centro brulicava di persone. Vado spesso in questa città; mi piace per il suo dinamismo, anche culturale, la sua storia e, ovviamente, le amicizie che amo rivedere non appena possibile. Legami di vecchia data, solidi, alimentati da incontri non frequentissimi ma di sostanza, con i quali sono sufficienti una telefonata o una cena per riprendere i contatti con la naturalezza e la spontaneità di sempre come se ci si fosse lasciati il giorno prima.
Ecco, ieri era uno di “quei” momenti: chiacchiere, risate alternate a discorsi più seri e impegnativi, in una parola “condivisione” attorno al tavolino di un bar nella bella cornice di Piazza del Duomo.
Complice la bella giornata, hanno fatto la loro comparsa le prime terrasse all’aperto e ne abbiamo approfittato.
Tra un tè, un caffè e qualche pasticcino, i camerieri che sembravano volteggiare con i loro cabaret, un “cosa desidera?” e un “avete scelto?”, ho notato due donne che si accomodavano al tavolino di fronte al nostro.
Mentre amici e marito continuavano nel loro cazzeggio cameratesco, le ho osservate per un rapido istante. Belle, raffinate, eleganti, non appariscenti e di colore. Ho provato un moto di soddisfazione guardandole depositare sulle sedie le buste griffate. Vedevo insomma davanti a me due signore dall’aria per bene che avevano trascorso un normale sabato pomeriggio facendo shopping in centro. Come me, come altre.
Felice per loro, ho distolto lo sguardo.
Purtroppo il quadretto idilliaco si è poco dopo trasformato in una deludente realtà.
Una donna africana si è avvicinata ai tavolini. Camminava a fatica. Sotto la lunga gonna dai colori sbiaditi s’intravedevano dei sandali calzati sui piedi nudi; il giubbotto che indossava era di almeno due taglie inferiori alla sua e metteva in evidenza un seno non più giovane che aveva forse conosciuto lunghi periodi di allattamento. I capelli erano nascosti da un copricapo a turbante, quello sì, bello, colorato, pulito.
Vendeva oggettini che estraeva da una specie di tascapane e mostrava sul palmo della mano.
L’ho osservata mentre sostava accanto alle due signore raffinate, eleganti e nere come lei; ho visto la scena distintamente e sentito le parole altrettanto chiaramente. Purtroppo.
“Che c…o vuoi?” un marcato accento bresciano sottolineava la sgradevolezza della frase pronunciata da un gradevolissimo viso. Un contrasto davvero insopportabile; un rifiuto amplificato dal gesto della mano e lo sguardo di disgusto.
Io ero basita.
La donna non ha insistito. Evidentemente non era la prima volta che subiva un tale trattamento.
Si è avvicinata al nostro tavolo. Gli altri attorno a me non avevano notato nulla; alcuni davano le spalle e altri erano impegnati in chiacchiere. Inoltre tutto si era svolto con una tale rapidità!
“Hai fame?” ho chiesto soffocando la rabbia che mi avrebbe fatto comprare l’intera sacca.
Mi hanno risposto i suoi occhi.
“As-tu faim? Assieds-toi!” ho tentato mentre spostavo una sedia vuota accanto a me.
“Oui, ça fait deux jours que je ne mange pas …”
Vero o no, non me ne importava nulla.
Ho ordinato cappuccino e brioche, una bibita e qualche pizzetta. E mentre lei si dimenticava delle chincaglierie da vendere, i miei occhi hanno incrociato quelli della bella signora elegante e nera: non dimenticherò mai la smorfia abbozzata sulle sue labbra mentre mi guardava.
È questo che gli extracomunitari integrati hanno imparato da noi?
È questo che noi civili occidentali stiamo comunicando?
Egoismo, menefreghismo, mancanza di sensibilità e rispetto, indifferenza?
Perché si dimenticano così facilmente origini e radici?
Inoltre, è questa la solidarietà femminile?
Ebbene, oggi 8 marzo, niente mimose per favore, ma un cappuccino e una brioche.