Titolo: Nessuno è indispensabile
Autore: Peppe Fiore
Editore: Einaudi
Anno: 2012
Si parte sempre dalla copertina. E allora scopro che l'Einaudi, per il secondo romanzo del giovane trentunenne Peppe Fiore (napoletano trapiantato a Roma), ha scomodato un grande illustratore come Franco Matticchio. Le aspettative sono già alte.
Dunque cosa vedo (disegni e relative associazioni di pensiero): mucca latte colletto bianco da cui spunta muso (della mucca precedente) metamorfosi kafkiane (incentivate dalla citazione «I colleghi sono persone fino a un certo punto»).
Titolo (fucsia, unica tinta forte nella sobrietà dei toni di copertina): Nessuno è indispensabile.
Per ora non riesco ad associarlo all'immagine. Mi viene fatto di pensare Oggi ci sei, domani non si sa, e comunque fuori c'è la fila, perciò comportati bene. Ritornello che probabilmente musica nella testa di tanti lavoratori. Forse allora il titolo si sposa coi colletti bianchi.
Giro il libro. Imperdibile chicca di Maticchio sul codice ISBN: una fila di impiegati giacca&cravatta o tailleur&tacchi e... uno di loro, senza giacca e con camicia fucsia (!), che si getta giù dal codice, nel vuoto.
Ironica, acuta e surreale, sicuramente una copertina riuscita e accattivante – se non ti piace il romanzo, avrai comunque qualcosa con cui giustificarti la spesa; se poi scegli i libri in base alla copertina ma non sei un feticista dei complementi d'arredo, qualcosa con cui prendertela.
Ma veniamo al romanzo. Siamo a Roma, ma dell'alma capitale vediamo soltanto le arterie congestionate dal traffico e la periferia più desolante. Ci si muove soprattutto dalla Cecchignola, «un agglomerato di pacifiche palazzine-dormitorio» dove stanzia il nostro (anti)eroe Michele Gervasini, a Pomezia, dove nel 1952 venne fondata quella che poi è diventata la terza azienda in Italia produttrice di latte e derivati.
La Montefoschi, 800 dipendenti, investitori tedeschi, in procinto di quotarsi in borsa, qualità dei prodotti garantita da rigidissimi controlli e un responsabile sindacale frustrato da dirigenti «sempre odiosamente disponibili ad accogliere le sue vertenze», è quello che si direbbe, senza remore, un'impresa modello. Eppure, anche al lettore più distratto, non potrà sfuggire l'aura sinistra che ammanta lo stesso nome dell'azienda: Monte-foschi. E infatti, nonostante un sole sfacciato illumini spesso le giornate lavorative, all'ombra della gigante mucca in vetroresina che troneggia in cortile ci sarà ben presto chi deciderà di darsi fuoco nientemeno che nello sgabuzzino delle scope. Prende così il via una misteriosa (quanto improbabile – ma importa davvero?) catena di suicidi che solo nel loro inquietante e ravvicinato reiterarsi riusciranno a destabilizzare la vita dell'azienda.
Questa la cornice. All'interno il quadro di un'umanità impiegatizia fatta di risorse dai tratti zoomorfi, impegnata a ticchettare sui tasti dei rispettivi computer fino a dieci ore al giorno, «la stessa partitura di gesti» ogni giorno, nell'oasi felice (!) del contratto a tempo indeterminato. Una transumanza insignificante fatta di hostess lampadate dotate di perfetto tono da imbonitrici televisive, di receptionists Bratz, di cinquantenni dall'aria qualsiasi promossi a funzionari, di impiegati diligenti che aspettano lo scatto, di sgambettanti colleghe d'ufficio e meno appariscenti giovani stagiste, di dirigenti con katane minacciosamente appese al muro del loro ufficio. E poi: le chiacchiere sulla fregna davanti alla macchinetta del caffè, il collega fissato con gli integratori multivitaminici, le raccapriccianti evasioni su siti per cuori solitari – tra parentesi: uno degli inserti meglio riusciti del libro.
Di questa parata di macchiette, delineata da una penna pungente, sagace e a tratti persino spietata, possiamo anche sorridere. Possiamo ridere o provare imbarazzo di fronte al principio di economia esistenziale che regola la vita di Michele Gervasini («la vita secondo Gervasini era una macchina che andava gestita al risparmio, delegando alla routine tutto il delegabile»). Tuttavia, chi di noi non cerca riparo nell'ordine delle cose? Il problema è che si passano dieci ore al giorno in azienda, cinque giorni la settimana, la domenica in catalessi davanti al palinsesto televisivo: «nemmeno te ne accorgi e sono passati trent'anni». Poi uno si ammazza, eh? Possiamo ridere di Gervasini e dei suoi colleghi, certo. Fin quando non siamo costretti a riconoscerci dietro queste caricature, dietro la loro umana necessità di rimpicciolire «i propri desideri al minimo sindacale della sopravvivenza per evitare le delusioni».
[...] aspirare alla felicità passi pure. Amen, è il primo difetto di fabbrica dell'essere umano. Ma sempre a piccole dosi, al limite del placebo, e valutando prima gli effetti collaterali e poi i rischi di assuefazione.
A quanto siamo disposti a rinunciare per il posto fisso? Gente che è pronta a dare la vita... A tutto questo troviamo una soluzione nel libro di Fiore? Fino a un certo punto sembra che l'unico riparo al grigiore alienante della routine aziendale sia offerto dall'amore (sempre lui!). Prima una fugace comparsa nella vita di Gervasini che tuttavia è in grado di inceppare (almeno momentaneamente) il meccanismo di orologio al quarzo che scandisce l'esistenza dell'impiegato. Poi un nuovo incontro e, sul finale, un amplesso (alquanto surreale) nel candido latte di un silos della Montefoschi. Eppure, nonostante il bagno palingenetico, pare che fuori dall'utero d'acciaio la catarsi non sia avvenuta.
Non è certo per il mancato lieto fine che si può rimproverare qualcosa all'autore. C'est la vie. Forse però bisogna ammettere che a fronte di una prima parte scoppiettante e promettente, dove i suicidi si susseguono creando una certa suspense, la seconda risulta sotto tono. Abbiamo di nuovo un suicidio poi il ritmo pare spezzarsi. Le persone che assomigliano a cose dovrebbero umanificarsi ma, di fatto, l'unico impiegato del quale Fiore decide di rivelare al lettore la parabola esistenziale sarà Pigafetta che, per l'occasione, diventerà appunto Enrico. Non ci si spiega bene perché proprio Pigafetta e perché gli altri no... insomma, forse l'autore perde un attimo la bussola e il lettore si annoia un po'. Con questo, il libro si continua a leggere. Soprattutto chi ancora crede di star leggendo un giallo andrà imperterrito fino alla fine aspettando il momento in cui tutti i nodi verranno al pettine. Invece bisognerà – temo – accontentarsi della notoria lezione che il lavoro debilita l'uomo o di quell'altra altrettanto famosa della routine che ammazza. Forse per confortare il lettore deluso Fiore si inventa poi un finale da far-west drogato post-aziendale che, oltre che assolutamente irrazionale – e fin qui... –, ho trovato quasi un rapido escamotage ad effetto per buttare tutto in caciara e calare velocemente il sipario. De gustibus...
Una menzione finale, e d'onore questa volta, va invece ai riusciti bozzetti che l'autore tratteggia della periferia romana più depressa e desolante: dalla chiesa sulla Palmiro Togliatti che ospita i funerali della prima impiegata suicida («una brutta chiesa moderna di periferia, di quelle che [...] nascono come una zampata di modernità nel cemento dell'edilizia popolare, e poi rimangono là inspiegabili a tutti»), al complesso urbanistico dell'Eur in puro stile urbanistico fascista; dalla panoramica del suburbio scorta dai finestrini della Micra del protagonista, allo squallido residence Paradiso (!) di Tor Vergata dove vive Pigafetta; infine il mare di Fiumicino e la litoranea che da Ostia Lido conduce a Torvaianica. Questi luoghi, con annessa descrizione di flora e fauna che li abitano, vengono pinzettati sulla pagina da una scrittura lucida e corrosiva. Non c'è giudizio morale, ma c'è quella fotografia del reale che ti fa mandar giù un boccone amaro.
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