Dove sta andando la letteratura italiana? Quali sono le linee che la guidano?
La risposta secondo Wu Ming è: New Italian Epic.
Wu Ming, che non è un capo cinese ma un gruppo di scrittori, ritiene che negli ultimi anni si stia diffondendo una corrente letteraria che riunisce libri diversi per stile e struttura, per argomenti, per generi, per periodo storico e area geografica, insomma diversi in tutto. Anche gli autori sono diversi e non appartengono alla stessa generazione. Ma allora?
La “nuova epica italiana” è segreta nel senso che gli autori che ne fanno parte non lo sanno. Non è un movimento di autori, ma un dialogo tra libri. Tra opere difformi che però hanno delle affinità profonde.
La “New Italian Epic” produce “oggetti narrativi non identificati” (Unidentified Narrative Objects) che possono essere indifferentemente narrativa, saggistica, giornalismo, o memoriale.
Una delle sue caratteristiche è la scomparsa del “popolare”.
In Italia “ci sono due schieramenti l’un contro l’altro armati – e dalla cui schermaglie dovremmo tenerci distanti: da un lato, quelli che usano il “popolare” come giustificazione per produrre e spacciare fetenzie; dall’altra, quelli che disprezzano qualunque cosa non venga consu- mata da un’elite. Sono due posizioni speculari, l’una sopravvive grazie all’altra”.
I due eserciti rischiano di trovarsi senza truppe, visto che: “Oggi la stragrande maggioranza dei pro- dotti non è di massa: viviamo in un mondo di infinite nicchie e sotto-generi. Il mainstream generalista e ‘nazional-popolare’ è meno impor- tante di quanto fosse un tempo e continuerà a ridimensionarsi”.
“Il mainstream è soltanto una nicchia più grande delle altre, ma con un pubblico meno affezionato e meno attivo” e over 50, aggiungerei io. Il profilo è: donna, 50 anni, quinta elementare. Ma facciamo un passo indietro…
La New Italian Epic nasce nei primi anni Novanta dalle braci del Postomoderno, ma viene scoperta soltanto nel 2008. Il Postmoderno ha portato all’irrisione di qualunque codice ed è rimasto aggrovigliato in un metadiscorso senza fine, né sostanza.
“I segni rimandano sempre e solo ad altri segni e la critica si auto annulla” “fino all’apologia dell’indicibilità e dell’assenza di qualunque senso”. Il genere diventa citazione e parodia del genere: Il nome della rosa non è un romanzo storico ma una riflessione sul romanzo storico. Così come Scream di Wes Craven è parodia del genere: ragazza-inseguita-da-pazzo-mascherato-agitante-una-lama.
Ma ecco che a poco a poco le parole si ricaricano e riacquistano un senso. I generi, dopo l’estenuante citazione passano alla contaminazione: sono tutti ibridi e sporchi perché tutto è miscelato e multimediale nella nostra era. Nascono opere mezzosangue come Gomorra, tra giornalismo e fiction. Non se ne può più della sperimentazione fino a se stessa: la sperimentazione torna a mettersi al servizio di una trama. Arrivano i nostri e sono “politici”. Si abbandonano distacco e ironia, ci si impegna. La funzione dell’epico non è proprio quella di incarnare una causa?
Gli autori (inconsapevoli) della New Italian Epic cercano di guardare dal punto di vista meno prevedibile, di vedere il mondo in altri modi, sorprendendoci. Vengono adottati punti di vista inusitati che possono essere quelli di animali, oggetti, o luoghi. L’eroe, quando c’è, non è al centro ma agisce obliquamente. Si fa ampio uso di storie alternative che partono dalla domanda what if: che cosa succederebbe se… Ad esempio ci si chiede che cosa sarebbe accaduto se Napoleone avesse vinto a Waterloo (cosa di cui è convinto un dirigente della Tim).
Ecco, oltre a Gomorra, qualche esempio di “oggetti narrativi non identificati”: 54 di Wu Ming, Black Flag di Valerio Evangelisti, Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo, Una storia romantica di Antonio Scurati, etc.
Adesso tutto è narrativo: dice Wu Ming 2 (sono numerati). Il fiume delle storie ha rotto gli argini e sta inondando la comunicazione. Fra gli effetti nefasti ci sarebbe la scomparsa dei fatti.
Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterarie, ma potenti cariche esplosive hanno minato le fondamenta dell’oggettività scientifica. La scienza si è sempre servita di metafore, anche quando sembrava che il suo unico linguaggio fosse la purezza della matematica. Le emozioni, lungi dal corromperla, sono un ingrediente fondamentale della ragione. Abbiamo un rapporto mediato, narrativo e metaforico con il mondo e questo non significa che il reale non esiste, o che abbiamo perso la capacità di sentirlo.
Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. Karen Blixen scrive che essere una persona è avere una storia da raccontare.
Lo storytelling non è molto diverso dalla retorica degli antichi, la scienza della parola e del racconto. L’affabulazione è obbligatoria com’è obbligatorio mangiare.
Nel cervello degli uomini possono convivere molte narrazioni, anche contraddittorie: una credenza non ne scaccia un’altra, più spesso l’affianca, la infiltra e la cura con metodi omeopatici. Molti bambini possono credere nello stesso tempo che Babbo Natale porta i regali, ma che i loro regali sono stati acquistati da mamma e papà.
L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie diverse.
La gente non vuole più informazione. Ne ha fin sopra ai capelli di informazione. Il diluvio dei saperi ha messo a nudo un’antica e paradossale verità e cioè che le domande e le incertezze aumentano con l’aumentare della conoscenza.
Uno studio dell’Università di Chicago ha scoperto che da quando molte riviste scientifiche si possono consultare on-line, si esamina una cerchia sempre più ristretta di testi e autori. Tutti finiscono sugli stessi siti: i primi, i più accessibili, i più conosciuti.
Come se ne esce? Come ci si difende dall’overdose informativa?
Secondo Wu Ming 2, raccontare storie può essere una strategia di sopravvivenza. In tempi di inflazione anche un narratore di talento fatica a farsi ascoltare. In tempi di abbondanza si produce molta merce di scarso valore. Il torchio a stampa di Gutemberg, aumentando la produzione dei libri, diminuì la qualità. Il rischio è che i best seller conquistino i comodini dei lettori e le poche energie riservate ai romanzi. Ma la presenza sul mercato di storie banali e insignificanti non dovrebbe offuscare le migliori. Anzi per contrasto dovrebbe renderle più luminose.
L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie diverse. Una buona storia, una storia raccontata bene, può essere l’antidoto che ci serve.
E torniamo a Wu Ming 1: “La fine della nostra civiltà e della specie è scritta nel cielo. Letteralmente. Non è questione di ‘se’ ma di ‘quando’. Non siamo eterni… Se ce ne rendessimo conto, se accettassimo la cosa, vivremmo la vita con meno tracotanza”. “La vera guerra è il conflitto senza fine tra noi, la specie umana, e la nostra tendenza all’auto-annichilimento”.
Quello che Wu Ming non può accettare è che “la specie umana stia facendo di tutto per accelerare il processo di estinzione e renderlo il più doloroso – e il meno dignitoso – possibile”. Sembra che nulla riesca a distogliere “il genere umano dall’assurda idea di essere al centro dell’universo”.
“Oggi arte e letteratura non possono limitarsi a suonare allarmi tardivi, ma devono aiutarci a immaginare delle vie d’uscita”. “Non c’è avventura più impegnativa: lottare per estinguerci con dignità e il più tardi possibile, magari avendo passato il testimone a un’altra specie”.
Può sembrare un po’ apocalittico ma in realtà questi Wu Ming hanno il merito di identificare e promuovere il meglio in quanto è stato prodotto negli ultimi anni. Nominare è presagire ed è appurato che le smentite non servono (possono addirittura rinforzare le false notizie). Perciò che dire? Senza nome è l’origine del cielo e della terra.