Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome

Da Ellisse

Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome - Oèdipus 2014
Un libro di non facile approccio, che ha bisogno di uno sforzo interpretativo non indifferente per essere accostato, e uno sforzo più di ragione che di sentimento. Poichè con ogni evidenza è con la ragione che è stato costruito da Ponzio, un lavoro che copre l'arco di un decennio  a riprova di una robusta idea o concetto che si ritrova nella compatta sostanza del libro. Voglio dire che dieci-dodici anni non hanno minimamente influito sulla varianza di stile, come forse avremmo potuto aspettarci. Un libro, per così dire. perseguito tenacemente. L'idea narrativa è quella di un dialogo, a distanza probabilmente di luogo e di tempo, tra due entità il cui scambio comunicativo è segnato graficamente dal corsivo e dal tondo alternati, come in certi testi teatrali. Una delle quali, si scopre fin da subito, è il cadavere di una donna che si sta lentamente decomponendo in un ambiente acquatico; e l'altra è un soggetto non esattamente identificato (ma è l'autore, il "mio" del titolo) il cui compito è "leggere" questo disfacimento, forse interpretarlo, in senso aruspicino forse, o forse meglio come "giacimento" di segni e di nessi, di nomi e di azioni, di fenomeni e di epifenomeni. Ma naturalmente tutto ciò non è che il livello superficiale (il pelo dell'acqua) del libro, come avverte nella postfazione Giampiero Marano. Già il titolo dà qualche indicazione, denotando un rispecchiamento (il mio nel tuo) di un "nome", che però non è quello che ci identifica come persone, non è l'identità, ma è il nome delle cose, quello di cui dobbiamo riprendere possesso per tentare di "comprendere" il mondo visibile e invisibile. Concezione, che come sappiamo, è biblicamente antropocentrica, provenendo  da Dio la potestà all'uomo di dare un nome alle cose. Nel dialogo tra i due soggetti è la trasformazione, subita e osservata, che costringe a riconsiderare i fenomeni, a riportare l'attenzione sulla potenza descrittoria - e quindi sul potere - delle parole. Sono - quindi - il linguaggio e forse la poesia i nuclei fondanti e gli oggetti veri della complessa allegoria rappresentata dal libro, come ricorda Marano. E prima di essi, ovviamente, la scrittura, che trova la sua ragione d'essere, e la sua salvezza, secondo l'autore, solo nell'affondare con coraggio (e freddezza) nelle viscere delle cose, reali o immaginarie, come in quelle di un cadavere. Certo, fin dal primo testo, non sembra che le "cose" debbano essere rinominate, se si accetta la lezione suggerita da Marano. Ponzio fin dal primo testo, affidato al corsivo del cadavere, stabilisce il privilegio dei nomi e la signoria dell'autore su di essi. Il testo, infatti, esordisce con una accuratissima sfilza di vocaboli attinenti al processo post mortem: "saprofagi, lividi, antremi. / decremento del calore / e del pH: ipostasi, fenoli / ammoniaca. / l'apparire annualmente di foglie. // poi mi sono seduta. ho aspettato. [...]" Competenza scientifica, che si dispiega ampiamente nel libro,  in aggiunta - direi - a necessità nominalistica, e si torna al potere definitorio (ma anche costrittorio, incasellante) delle parole. Tuttavia è proprio da questo processo, dice il cadavere, che "iniziavano i nomi". I nomi hanno una vita successiva al processo, che va avanti inesorabile anche senza di essi. Se il mondo fosse vuoto di nomi, la morte continuerebbe in silenzio la sua opera distruttrice. Ecco, questo è un altro punto. E cioè se davvero, anche dal punto di vista dell'allegoria che Marano accredita al libro, quella descritta da Ponzio sia davvero una "distruzione". Può apparire singolare che sia proprio la figura femminile, quella che tradizionalmente e culturalmente è generante e vivificante, ad essere morta. Escludendo una ipotesi di misoginia, direi che forse è segno di una morte non vera, nel senso di una ricostituzione degli elementi altrove, di una rigenerazione. I testi, che sono salvo qualche eccezione tutti brevi, sono in effetti - nella dinamica dialogica - uno scambio di prospettive, di "informazioni", una dissoluzione / ricostituzione, un rilasciare / raccogliere indizi. Cosa che è, in effetti, a ben pensarci, la capacità modulante della sintassi. Al fondo c'è anche un'idea di risanamento della parola, che la società attuale ha danneggiato e impoverito al pari della natura, dell'ambiente, dei rapporti umani. E' - nelle intenzioni di Ponzio - una "anamorfosi", come titola la prima delle cinque sezioni del libro: un formare di nuovo, un riformare e insieme, tornando al linguaggio scientifico, una rigenerazione spontanea di certi organismi. Ma è anche, e Ponzio non può ignorarlo, una deformazione prospettica (v. "Gli ambasciatori" di H. Holbein il Giovane QUI) che restituisce all'osservatore (il voyeur, come Marano chiama il "vivo" del libro, ma anche il lettore) la responsabilità di ricomporre il senso. Un gioco ambizioso che non è detto che riesca a dare i frutti sperati. E infatti Marano avverte opportunamente che proprietà dell'allegoria "è l'impossibilità di stabilirne a priori l'esito finale". Le altre sezioni ampliano e svolgono questa analisi allegorica del disfacimento e il suo tentativo di "riuso", secondo il principio - potremmo dire - trasformazionale caro al Lavoisier del "nulla si crea, nulla si distrugge". Il percorso è articolato e insieme ricorsivo. Di "Anamorfosi"  abbiamo detto; segue poi  "Imago picta", una sezione in cui appaiono per la prima volta nel libro testi - sempre nell'ambito del dialogo tra i due soggetti - nei quali è il colore protagonista di una ricerca di elementi basilari ("ontologici", dice Marano) che legano le cose tra loro, ne avvicinano il senso, fanno da comun denominatore, e sono insieme indici e simboli di vitalità e decadimento (e mi viene da sorridere ricordando l'ammonimento di Leone XIV: mortuorum picta imago non imprimatur et ridens non mortui sed hyeanae facies est, che non si stampi immagine di morti a colori, l'espressione sorridente è propria della iena non del morto). I colori naturalmente sono primari e "saturano" alcuni dei testi più lunghi (sei quartine ciascuno), che Marano definisce "cataloghi mantrici": il rosso, nelle parole della morta: "...rosso arboreo, rosso cuore, rosso chimico. / rosso bacca, rosso acceso, rosso agata. / rosso nube, rosso legno, rosso cimice. [...]"; il giallo nelle parole dell'osservatore: "giallo siero, giallo ocra, giallo pallido. / giallo ottone, giallo acceso, giallo acido. / giallo cromo, giallo antere, giallo iride [...]", e a seguire, nelle parole del cadavere, il verde. Mentre il blu si affaccia (dopo essersi palesato con Ponzio altrove, come vedremo) solo nella sezione "Dell'acqua", come si conviene, ancora con la "voce" della morta. L'acqua ha una infinità di richiami simbolici, dal battesimo salvifico all'amnio, ma qui direi che va nel senso doppio di liquido in cui l'allegorico cadavere si dissolve e di "scrittura che fluisce" e riordina le "caotiche correnti che ti corrompono". E' nella sezione "L'urna e la luna" (il cui titolo, insieme all'acqua, non a caso mi rammenta l'Ophelia di John Everett Millais (1852), capolavoro della pittura preraffaellita) che lo spettro dei colori decade nel grigio, nel nero e nel bianco, catalogati rispettivamente dal cadavere, dall'osservatore e ancora dalla morta, e riferiti con ogni evidenza alla notte. I colori però non sono l'unico oggetto di questi "cataloghi mantrici": ancora in "Dell'acqua" Ponzio costruisce un elenco in venti quartine delle duecentocinquantadue differenti specie (secondo il conteggio di Marano) di Naviculae  che "produttrici insieme ad altre diatomee di quasi un quarto dell'ossigeno che respiriamo, costituiscono l'origine, sempre diversa e sempre uguale a sé stessa, in rapporto alla quale la morte e la dissoluzione della materia risultano illusorie, inessenziali" (ancora Marano). E infine, nel penultimo testo del libro, privo di metrica, Ponzio cataloga sostanze, minerali, composti, liquidi, essere viventi, fenomeni della natura, elementi (circa centottanta) tutti accomunati, come rileva Marano, dalla proprietà della trasparenza. Come se tutta l'odissea del cadavere e della sua distruzione abbia condotto finalmente, sempre secondo Marano, a rivedere la luce, "dall'amnio alla cromosfera". Il testo appartiene all'ultima sezione, titolata "Agnizioni", che, come noto, rimanda direttamente a un topos letterario, al "riconoscimento" (forse dell' "identità" dell'allegorico cadavere), alla "svolta" nel percorso narrativo. Vediamo di tirare qualche somma, dopo questo lungo resoconto. Mi pare evidente che l'impianto dell'opera è concettuale, se non ideologico, termine sovrapponibile che usa anche Marano. E' poesia di ricerca, certo, e Ponzio appartiene indiscutibilmente a quest'area, tanto eterogenea quanto criticamente indefinita, e in particolare a quella linea il cui oggetto principale se non unico è il linguaggio "spogliato", depotenziato di parecchie delle funzioni che ad esso si assegnano tradizionalmente (da Jakobson in poi) e messo spesso in una condizione metalinguistica, di mezzo che indaga sul mezzo. Un  linguaggio il cui senso va ricercato "altrove", il cui carattere evocativo è tutto "interno", nel suono che produce (spesso, come nei cataloghi, mono-tonale come certe musiche primitive) o nella "ossessione" che trasmette, un linguaggio che diventa emblema e icona della criticità e della difficoltà di comprendere il mondo. Diventa allegoria di sé stesso.  E' ovvio che il libro, che offre anzi molti spunti di interesse e di riflessione, non è riducibile a questo,  ma la lettura è anche un gioco di  consonanze, e leggendo quest'opera mi sono tornate alla mente un paio di cose. La prima riguarda un altro libro, che ho molto apprezzato, ovvero "Serie del ritorno" di Stefano Massari (v. QUI): anche lì una struttura dialogica, una contemplazione e un dialogo con la morte, anche lì segnati graficamente dall' alternanza tra corsivo e tondo, ma con una ben diversa cognizione del dolore come componente ineludibile dell'umano, e non solo perché c'è un "io" presente, di uno che - come scrivevo - si è seduto sulla soglia, quella estrema. Per sintetizzare, una diversa temperatura. Non si tratta di stabilire confronti, del tutto inutili. Ma il ricordo mi è servito per capire altro, ad esempio un certo senso di freddezza che il libro di Ponzio mi ha restituito, solo a tratti mitigato nei testi in cui l'osservatore sembra interiorizzare il pensiero, rimeditare la parole della morta. Che viceversa è in pratica quella che, paradossalmente, tinge le sue parole di qualche emotività, di qualche accento lirico, se non elegiaco, come un rimpianto. Forse sbaglio, forse è un'impressione più da lettore che da critico (cosa che tra l'altro non sono) ma a me pare che dall'altra parte, dalla parte del voyeur/autore (e quindi una cosa voluta) ci sia un osservatore fin troppo distaccato rispetto al "dramma", qualsiasi esso metaforicamente sia. In realtà non c'è "parentela" (capiamoci, non parlo di anagrafe) tra queste due voci, come se il vivo "ipotizzasse" sulle cose del cadavere, come un anatomopatologo, termine che anche Marano utilizza (e infatti quasi subito si legge, parole dell'osservatore: "s'ingenera l'effetto di una lente / se si esamina il perimetro: lieviti, lave / larve intorpidite dalla brina". Il perimetro, come sa ogni amante di gialli, è la griglia che incasella la scena del crimine). L'effetto che a me personalmente ritorna è una certa sensazione di latitanza di empatia, o meglio (l'etimo aiuta sempre) simpateticità verso un oggetto che - a questo punto - è post-umano, ma con poco Nietzsche. E forse è necessario che sia così, perchè l'oggetto non è nemmeno tale, il cadavere è una pura finzione scenica, esattamente come l'allegoria su cui ruota tutto l'intervento di Marano. Sarà il cadavere della società, o dell'arte, o della lingua, ma il punto è chi è l'alter di questo, con quale "dolore" compartecipa alla tragedia. Ammetto che forse non è lecito aspettarsi queste cose da un'opera che ho definito concettuale, in cui cioè il rapporto tra l'autore e la sua materia è - per così dire - naturalmente "anaffettivo", marcato dalla distanza. E preciso anche che queste considerazioni non investono la particolare estetica di questa opera che certamente ha il suo fascino e la sua importanza. L'altra cosa che mi è tornata in mente e che credo interessante, invece riguarda l'airone de "Il giardiniere contro il becchino" di Antonio Porta, che risale a un trentennio fa: "A questo punto, Airone / mi frughi nel ventre / e trovi umida sabbia e / piccole uova di rettile, / il tempo, il poema finisce / in punta di lingua (...)". Dice Niva Lorenzini: "retto per intero sulla struttura contrappuntistica di un io / tu che si rivela voce sdoppiata del poeta-airone protagonista delle segmentate sequenze, mette direttamente in scena la scansione del nascere e del morire, associandola alle aree cromatiche  della trasparenza e dell'opacità". Ecco che si torna a una serie di elementi (sdoppiamento, colori, trasparenze, vita/morte ecc.) del libro di cui stiamo parlando. Non so se questo è un ascendente, ma è probabile. Curiosamente, è possibile ritrovare gli aironi, accostati a termini tecnici cari a Ponzio, in un interessante lavoro del 2007, "Esercizi del rischio" (v. QUI): "Isomeri – arenaria / sottile impastata con l’acqua / specchiante due flebili aironi". Questi elementi tuttavia risultano, anche nel corpo della raccolta, per lo più "assiepati" nei cataloghi. Che certo, d'accordo con Marano, assumono un ruolo importante, ma possono anche apparire in qualche modo - per così dire - "innestati". I cataloghi, che dal punto di vista del discorso che facevamo sulla scrittura di ricerca sono esemplari, lo sono però anche in termini di ascendenti letterari. I quali certo esistono, e forse sono quelli nobili che cita Marano, da Omero a Dante alla Rosselli fino ai Veda, ma tra i quali bisogna ricercare lo stesso Ponzio. E' davvero probabile che il testo che elenca le duecentocinquantadue Naviculae sia ispirato al Catalogo delle navi del secondo libro dell'Iliade, come osserva acutamente Marano. Ma i "cataloghi mantrici" dei colori e degli elementi provengono direttamente da una certa ossessione poetica che Ponzio ha espresso più volte nell'ambito della poesia di ricerca (continuo ad usare forse impropriamente questo termine). Anche solo limitandosi a quanto è possibile reperire in rete, si può trovare il blu in un testo del 2013 (v. QUI), il bianco in uno del 2011 QUI, (dove forse l'ispirazione è extraletteraria: Klein, Manzoni, tanto per citare due nomi che certo Nicola conosce bene), un altro interessante testo catalogatorio, questa volta dedicato al tempo, del 2012 (v. QUI). Tutti testi o modelli di testi che hanno trovato una ricollocazione, una rimodulazione, un "innesto" come ho detto prima, nell'opera.
Insomma un libro complesso, con non pochi spigoli, un libro che non consente molte vie intermedie, anche per quanto riguarda il suo apprezzamento. Uno di quei libri che se fosse al centro di un dibattito (e non è detto che non lo sarà) sarebbe definito controverso. (g.c.)
da Anamorfosi
saprofagi, lividi, antreni.
decremento del calore
e del pH: ipostasi, fenoli
ammoniaca.
l'apparire annualmente di foglie.

poi mi sono seduta. ho aspettato.
ho aspettato che il buio
venisse da me.
traiettorie di api, metano,
autolisi.
le radici vicine s'impiantano nelle ossa.

Tarantula Nebula, ortiche
orneblenda.
iniziavano i nomi, i fenomeni
e le sembianze, — l'invisibile etc.
combustioni solari
sulle vertebre,
mentre incedi traballante tra le talpe.
penuria alla penombra, acidità
disfacimenti minuziosi delle gonadi
nel giubilo ipogeo.
immanenze boschive.
cellule alterate dalla crescita
precoce delle ife, —
dai sali che ne limitano il peso.


la dorsale del cielo ti separa
dalla luce dell'estate,
attraversandoti la schiena rosicchiata.

soffia il föhn nella tibia
forata affinandone un flauto.
non mi sentono più.

le mani hanno speso i colori
donandoli al mirto.
non mi toccano più.

testimoniano il peso del mio mutamento
brandelli di lino.
dove inizia il guard-rail.
vessilli scoloriti sul terrapieno:
due forcine di tartaruga, il rossetto
e l'eyeliner — una fiala di essenze.
l'inventario precede l'identità.
ecco la teca col ramarro, l'occipite
intarsiato.
il bosco e la nave stessa, l'aurora
d'intorno
come se veleggiasse, che tutto permea.
è avvenuto così,
umbra solis, — nonostante il quadrante
terrestre indicasse altre vite.
fasi e rifioriture oltre le frasi cancellate
da Imago picta
vicina alla stele vacilla
una debole fiamma.
ha lo stelo incurvato
dal gelo, ogni petalo inerte.
aculei inoffensivi come stelle.

schiarirà le mie unghie
annerite.
le misere ghiandole esposte
agli artigli, all'inedia dei rettili
scalderà le mie dita
ghiacciate,
ricoperte di ghiande.
imenotteri e trine
di brina oltre l'area di transito.
appunti del Cretaceo
sulle carici. Tir che tratteggiano
il margine intorno al perimetro.
era lì che accrescevi
i tuoi limiti, —
con la t-shirt che traspariva
tra gli sfagni
amalgamandosi alla nafta.
alle covate brulicanti.
nel sudario dì luce,
cosa rifiorisce
dalla morte, —

dal ragno che disegna
l'equilibrio,
il filo iridescente sull'insetto?

cosa rifiorisce
dall'involucro
che azzarda un alfabeto?
un sentiero di tortore e ortiche
lambiva il torrente.
sii come un seme — entra.
unisciti alla terra se vuoi scrivere.
l'ombra dei salici ampliava
lo spazio venando il nevischio.
il muschio appiccicato sul granito.
da Dell'acqua
nel catino di zinco sbiancato
galleggia una chiazza
oleosa, un residuo di resina.

sono accanto al pontile.
sto lavando i miei piedi
il larice specchia i suoi rami
nell'acqua increspata.

non c'è ancora nessuno.
soltanto un cielo cavo
che si stinge.
tuberi che stringono
le tube rimediandone una lingua.
manifestano la loro esuberanza.
meno chiare in luogo del porporino,
ora in cerchio, ora in linea
verso altre direzioni.
come avviene nella fasi dell'erranza.
idiomi delle cose materiali
così comparse: Sole a confine
del naufragio, — membrane,
flos aquae.
osmosi nelle assi consumate
dall'impulso ondulatorio. — cumulo
blu che deterge i tuoi lividi,
capovolgendo la sintassi.
non vale la pena di mantenere
distinzioni fra un nome e l'altro.
il mutamento è la condizione
necessaria alla persistenza,
nel tuo modo di vita.
cos 'è questo candore nella melma.
questo fiore che inganna
il cantore fuorviandone il compito ?

ti vedo dall'argine opaco
che limita l'isola, sento il sale
sugli occhi. il mio corpo imitare
la terra con nuove materie.
immobile nell'acqua della fiamma
.
caotiche correnti ti corrompono
nel gelo delle chiuse, —
tra flutti che s'impastano
col nylon. con le lattine
d'alluminio i copertoni.
vibratile trasudi dai tuoi abiti
petrolio da lanterna.
e ora voli nel fresco
dei salici insieme alla Terra,
cercando di afferrare
le parole come fossero libellule.
parvenze che si specchiano
nell'acqua.
nella scrittura che fluisce.
da L'urna e la luna
lunula, valvola, tuorlo e bisillaba.
magma, cerniera, molecola
e vulva. trottola, enigma,

ghirlanda e cervice. sfera
errabonda, albedo e matrice. malva
corolla, Selene ed ovario. bussola

prua, eone e diatomea. cenere
assiolo, pupilla e bivalve. femmina
spora, albume ed aureola.

lucciola perla, clitoride e cellula. mix
di materie che culla e germoglia.
acino bocca, Navicula e arnia.

nottola, arnica, alveolo ed anello. rotta
notturna, falena e baccello. cruna,
nottambula, ovulo e specchio.

capsula, maschera, epìstola e urna.
cardine, origine, botola e iride.
ciclo, dimora, gibbosa lanterna.

pagina, sposa, vocabolo e ala. globulo,
falda, vestale e semenza.
argine, opale, placenta e scintilla.
un alone contorna i capelli
imbrattati d'argilla,
mentre anelo a parlarti
del cielo che preme sugli aceri.
sono freddi i tuoi piedi.
l'anello di ortiche intorno all'ulna
scheggiata asserisce la Luna.
la tua tela di nomi a tutela dell'urna.
da Agnizioni
spazi in tentativi di unità,
date le locuzioni, le mucose
sul muschio, — nella crescente acidità
dell'uvaspina che scompagina le ovaie.
ecco il corpo, il telaio: l'agnizione
dettata dall'aporia,
nel processo che segue.
generando all'interno altro seme, vigore
e dissidi. vere necrofanie,
se fiorisce nell'utero.
nell'olio che tornava a colare
impregnando i colori, — l'icona
residua in funzione di un nome, di un'alba
più fertile.
fonte viva nella quale si lava.
presaghe di sventura queste viscere
gettate alla rinfusa.
segni divinati da un assiolo
tramutatosi in aruspice.

...e ogni stella che transita è un grano
di sale, una chiazza di vino che origina
un nome, una semina un volto.
sull'ara circoscritta dalle ortiche.
mente che mente
e poi s'inluoga.
deriva dalla stessa ambiguità
delle parole
i suoi legami con il senso.
la sua pluralità, la privazione, —
nel cuore di dolenti geometrie
della ragione.
finiva così la stagione invernale.
la fedeltà delle sostanze.
premono il grembo allestendo un amplesso.
mi tramuto in ortica.
circostanza prevista da un modello teorico.
gusci, —genealogie dell'universo.
un cieco ti guida mostrando il dipìnto.
sorprendente scoperta della notte.
fedele alle matrici più spietate.
nella luce che cela ogni traccia.
sequenziamento del linguaggio.
buio simultaneo alla mia veglia.
trasparenza, parole, orditura.
tempo che diventa infiorescenza.

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